Il mio primo giorno di scuola
Se per primo giorno di scuola s’intende quello canonico, prescritto e atteso con ansia e trepidazione da tanti bambini e genitori, quello dell’entrata in classe accompagnati, spauriti e col magone, quello del distacco che inizia con un abbraccio di commiato e un lacrimone, ebbene, io quel primo giorno di scuola non lo ricordo affatto. Ricordo, invece, il mio primo, vero giorno di scuola, quello mio e soltanto mio, non prescritto, non programmato e non atteso, senza grembiulino e senza cartella, senza accompagnamenti né abbracci, né lacrime. Un giorno improvviso, casuale e, soprattutto, senza magone.
Avevo cinque anni, neppure l’età prescritta per quell’appuntamento. Insomma, non avevo nessuna carta in regola per quel primo incontro ed essendo primogenita di una numerosa nidiata nessuno mai aveva trovato il tempo di parlarmi di questo qualcosa dal nome scuola che mi avrebbe attesa di lì ad un anno. A quei tempi la scuola iniziava il primo ottobre, giorno di San Remigio, e remigini erano detti i bambini chiamati per quel primo incontro. Questo naturalmente venni a saperlo molto dopo e molto dopo mi venne di considerare che quel giorno era scritto già nel mio dna. Io, infatti, sono nata proprio il primo ottobre. Allora, però, non potevo e non avrei potuto fantasticare su questa coincidenza o accostamento che dir si voglia. Adesso che posso guardare in retrospettiva quel mio lontano orizzonte, mi piace arzigogolarci intorno ed associarlo alle tante altre coincidenze che hanno tracciato il percorso della mia vita.
Eravamo ad Amorosi, il mio paese natale, in provincia di Benevento.
Quel giorno avevo ottenuto da mia madre il permesso di uscire. Era una giornata di sole, non per luogo comune ma di fatto. Doveva essere di mattino inoltrato perché in via Roma, la via in cui abitavamo, non c’era il solito andirivieni di gente ormai al lavoro. Io e la signora che mi accompagnava camminavamo insieme ma ognuna per i fatti suoi. Io in cerca di qualcuno con cui giocare, lei in cerca di qualcuno con cui chiacchierare. Fatto sta che ad un certo punto mi trovai vicino ad una finestra a piano terra, aperta. Mi avvicinai al davanzale e sbirciai dentro. Vidi tanti bambini seduti, in silenzio, le braccia incrociate e il grembiulino nero. Per me una cosa insolita e misteriosa. Ancora più insolita e misteriosa quando, allungando di più il collo verso l’interno, vidi un signore che scriveva in bianco su una superficie nera. Catturata da quella stranezza rimasi ferma lì, a guardare, e neppure mi distolse l’animazione che andava scomponendo i grembiulini neri. Se ne accorse il signore che scriveva in bianco. Si voltò verso i grembiulini e, percorrendo a ritroso il tragitto di quell’animazione, dai bimbi alla fonte, con lo sguardo giunse a me ancora persa nel mio rapimento. Fui distolta dalla sua voce. Non ricordo quello che mi disse ma ricordo la tenerezza del suo atteggiamento e il tono amorevole della sua voce. I grembiulini neri si ricomposero. Non per timore di una punizione, perché non ricordo nessuna sgridata, ma, penso ora, perché in attesa dell’epilogo di quel fuori programma insolito anche per loro. Il signore venne verso di me. Mi chiese qualcosa che non ricordo e dovette invitarmi ad entrare perché mi aprì la porta di strada e, prendendomi per mano, mi accompagnò a sedermi al primo banco. Solo ora posso definire quell’entrata con un accostamento. Fu per me come la calata di Alice nel paese delle meraviglie. Tanti bambini tutti uguali nei loro vestitini neri, un signore amorevole che parlava di cose a me sconosciute, che ci avvolgeva nella magia di storie fantastiche e ci richiamava alla realtà con uno schiocco delle dita. E poi?... Poi un qualcosa che il signore invitò ad aprire. Lo chiamò sillabario. Era un libro. Aveva le pagine e da quelle pagine parlava ai bambini che, per magia, gli davano voce.
Tutto aveva per me il sapore di una favola.
Quando tornai a casa non dovetti dire niente a nessuno e nessuno mi chiese nulla, ma la voglia di ritornarci ancora, in quel luogo magico, non mi abbandonò mai nei giorni a seguire. Mi addormentavo sognandolo e mi svegliavo escogitando il modo di raggiungerlo.
Ci tornai altre volte.
Poi venne il freddo e quella finestra si chiuse.
Si chiuse anche il portone di casa mia e fu per me una lacerazione.
Di giorno cominciai ad agitarmi smaniosa per casa, ad essere irritabile e capricciosa, a starmene col naso appiccicato ai vetri a spiare il bel tempo.
Di sera, a letto, non riuscivo più a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo, frignavo e reclamavo ripetutamente Voglio il libro... Voglio il libro. La parola libro era l’unica con cui riuscivo a compendiare e a dare un nome a tutto quello che mi mancava e che io volevo. Ripresi a dormire solo quando mia madre riuscì a procurarsene uno e a portarmelo a letto ogni sera. Con quel libro tra le braccia ripiombavo nella magia della mia favola perduta.
All’altro anno, compiuta l’età per legge, qualcuno dovette accompagnarmi a scuola ma io quel giorno non lo ricordo.
Per tutti gli altri remigini quello era il primo giorno di scuola, per me no.
Io ero già una veterana.
Dalla Media al Ginnasio\Liceo Classico
Quel 1954 fu segnato, in contemporanea, da due avvenimenti che incisero in maniera notevole e determinante sul mio futuro: una borsa di studio e il pensionamento di mio padre.
Nel luglio di quell’anno, superati gli esami di terza media, mi fu assegnata una borsa di studio la cui notizia, pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno, per quel che accadde poi, dovette avere una certa risonanza nell’ambiente scolastico del mio paese.
Quello stesso anno mio padre, a soli 48 anni di età, in obbedienza alla legge fascista ancora in vigore, fu costretto a mettersi in pensione. Prima che scattassero i termini, aveva inoltrato al comando militare la richiesta di permanenza in servizio per motivi economici e di famiglia: cinque figli di cui, io, la più grande, non ancora quattordicenne. L’aveva anche avallata con una nobile referenza: l’autorizzazione, rilasciata nell’ottobre del 1947dal Ministero della Guerra, a fregiarsi del distintivo della guerra di Liberazione. Ma niente. Fu costretto, nonostante tutto e suo malgrado, a mettersi in pensione dall’arma della Guardia di Finanza.
A quei tempi andare in pensione così giovani, senza buona uscita, perché non prevista dalla legislazione fascista ancora vigente, senza più mensilità per qualche anno a causa della lungaggine burocratica, con cinque figli sulla groppa e in assenza di altre risorse, equivaleva a finire letteralmente sul lastrico.
Costretto ad affrontare con estrema intransigenza il problema del mio futuro, a settembre di quell’anno, aperte le iscrizioni, saltando i preamboli e senza tergiversare, con tono deciso e parole chiare, mi disse che lui era disposto ad assecondarmi nel continuare gli studi a patto che mi iscrivessi al Magistrale. Era l’unica strada, mi disse, che, in soli quattro anni, mi dava un diploma, quello di maestra elementare, che mi avrebbe consentito di guadagnare subito e di aiutare anche la famiglia.
Se c’era una scelta che non avrei mai fatto era proprio quella che lui mi proponeva.
Io volevo iscrivermi al Classico e lui lo sapeva.
Non ci fu discussione, solo l’aut – aut: o il magistrale o a casa ad aiutare la mamma.
Caparbia e orgogliosa com’ero e sono nelle mie decisioni, rifiutai il magistrale masticando orgoglio e lacrime.
Quel primo ottobre non mi vide tra i banchi di scuola ed io quel giorno e i tanti che seguirono non li ricordo fino a quel pomeriggio in cui si decise il mio improvviso e inatteso ritorno alla vita.
Eravamo in pieno novembre, forse la metà, forse la fine. Dal giorno del mio rifiuto avevo perso anche la nozione del tempo, ma quel momento lo ricordo come si può ricordare l’irruzione della luce nel buio pesto di una voragine.
Quel pomeriggio un pacco poggiato sul tavolo segnò per me il ritorno alla vita e di conseguenza il reintegro di tutte le funzioni vitali quali la memoria, nella quale custodire la mia storia, l’entusiasmo, il sogno e la speranza con cui disegnare la mappa della mia vita
Risento ancora la voce di mio padre che, indicandomi il pacco, mi ordina di aprirlo. Ricordo i miei tentativi inutili, ricordo mia madre che mi aiuta e poi... Poi libri… tanti libri!... Libri, quaderni, penne e una cartella.
Ogni volta che vi ritorno con la memoria mi rivedo inebetita e muta nella immobilità di quello stupore. Risento ancora la voce di mio padre che mi annuncia con l’intransigenza di un ordine - tu domani torni a scuola – poi, porgendo un involucro a mia madre - Qui c’è la stoffa per il grembiule... Che ne dici, ce la fai per domani mattina? –
Incredula e frastornata, quella notte, rannicchiata nel ritrovato tepore della vita, mi addormentai cullata dal ticchettio della macchina da cucire.
L’indomani mattina il grembiule e il colletto bianco, confezionati da mia madre, erano ai piedi del mio letto.
Con quella divisa e con la cartella piena di libri e quaderni, uscii di casa e mi incamminai lungo la strada dei miei sogni.
Solo più tardi seppi il motivo che aveva determinato quella inattesa e improvvisa virata nel mio destino.
Lo seppi dal racconto che mio padre più e più volte offriva ad amici e parenti. Un racconto che ha del magico e del prodigioso. Una storia, mi piace credere,
disegnata da un’Intelligenza amorevole e provvidenziale.
Quella mattina mio padre aveva ricevuto dal Liceo Classico di Ostuni una raccomandata, in cui il Preside, Tommaso Nobile, lo invitava per un problema che mi riguardava.
Da premettere che a quei tempi la scuola media era accorpata al classico, per cui il personale di segreteria e il Preside erano gli stessi che mi avevano tenuta loro alunna nei tre anni precedenti e, quindi, mi conoscevano.
Mio padre, sorpreso e incuriosito – in quanto né io, né lui avevamo più nulla da spartire con la scuola - senza frapporre indugi, si presentò quella stessa mattina all’appuntamento.
Dalla sorpresa passò allo stordimento quando il Preside gli comunicò d’essere stato costretto a convocarlo perché io, sua figlia, alunna della IVA, non avevo frequentato neppure un giorno di scuola.
Ma io non l’ho iscritta - proruppe cadendo dalle nuvole –
- … lei è il padre di Maria Colacicco, nata ad Amorosi? -
- Sì, sono io ma, ripeto, non l’ho iscritta!-
A questo punto il Preside chiamò il bidello e gli ordinò di portargli il registro della IVA per verificare se effettivamente risultavo nell’elenco di quella classe.
Ero presente.
Chiamò allora il segretario, Agostino Mancini, che, con la voce dimessa di chi ha compiuto un illecito, fece chiarezza su quell’equivoco.
Lui e il Professore di Matematica, Luigi Blonda, incaricati quel settembre a comporre le classi, conoscendomi e sapendo che avevo superato gli esami di scuola media e che avevo vinto anche una borsa di studio, non trovando, tra quelle pervenute, la mia domanda di iscrizione, sospettando una dimenticanza o un ritardo della famiglia, d’ufficio mi avevano iscritta e mi avevano inserita nell’elenco degli alunni della IVA.
Al Preside, al segretario e al professore di Matematica, vuoi come artefici, vuoi come strumenti di un disegno altro, devo il tracciato del mio futuro.
Ma torniamo a quell’indomani mattina.
Non ricordo nulla di più di quel primo giorno di scuola se non l’insegnante di Greco e l’approccio disinvolto dei miei compagni di classe con quella lingua, il Greco, a me totalmente incomprensibile ma soprattutto indecifrabile per l’astrusità dei suoi segni alfabetici Non mi sgomentai. Al finire dell’ora mi avvicinai alla cattedra e, con il libro di grammatica in mano, chiesi all’insegnante se mi poteva dare un aiuto. Quello per me era il primo giorno di scuola.
La risposta fu secca:
- Se dovessi rispiegare tutto daccapo a chi si assenta o a chi come te si presenta a scuola con oltre un mese di ritardo starei proprio fresca con il programma! -
Non dissi nulla. Chiusi il libro e me ne tornai al posto.
A casa studiai anche la notte e l’indomani ero già al passo con i miei compagni. Leggevo e traducevo quelle che erano allora semplici frasi con la stessa disinvoltura di chi non aveva mai perso neppure un giorno di scuola.
Dopo la notte agitata sentivo ancora più forte il malessere di quella litigata. Avevo pensato di marinare. L’idea di non rivederla mi faceva stare male ma… l’idea di rivederla mi faceva stare altrettanto male. Mi sentivo la testa tumefatta, scollata dal corpo ma non dal cuore. D’impulso presi i libri e mi tuffai in strada.
Non ce la faccio più - mi dissi - qualunque cosa dovesse accadere metto punto e basta… Mi arrendo!
Quasi rinfrancato da questa improvvisa decisione, girai lo sguardo intorno ma…
O Dio!... Non ero preparato a quel che vidi!
Ero certo e sicuro d’aver imboccato la solita strada ma… la solita strada, le solite case, i soliti negozi era come se non li ritrovassi più. E poi… uomini e donne vestiti non all’ultima moda ma addirittura con fogge e ornamenti ormai sepolti nel silenzio della storia. Chitoni, clamidi, pepli, tuniche…
Cercai con lo sguardo il bar dove ero solito incontrarmi con i miei amici, prima di entrare a scuola, ma niente… Muri… muri senza intonaco, porte e portoni senza citofono e botteghe, a dir poco, dell’altro mondo. Alcuni entravano, altri uscivano da soli o in gruppo, tutti sembravano, come me, diretti verso un qualcosa di cui neppure io mi rendevo conto, frastornato com’ero.
D’improvviso fui attorniato da un nugolo di ragazzi e ragazze che chiacchieravano e ridevano con allegra spensieratezza.
Dimentico d’ogni mio disagio, mi lasciai coinvolgere.
Cercai di attaccar bottoni, tanto più che c’erano delle ragazze rese ancora più belle dalla foggia sorpassata del loro antico abbigliamento ma… fu come trovarmi nella torre di Babele… Io parlavo e loro pure ma non ci capivamo. La loro era una lingua… una lingua che, a sentirla così, non la capivo ma per gli echi che mi lasciava nelle orecchie mi suggeriva qualcosa. Cercai un approccio più confidenziale con qualcuno quando… mi trovai difronte una sventola ma una sventola da mozzare il fiato. Una ragazza o, meglio, una divina dal corpo armonioso, dalla carnagione bruna, dai lineamenti aggraziati, elegante, spigliata. Una visione! Mi feci coraggio.
- Ciao - le dissi.
- Quisne es? -
- Ma… che lingua parli?... Come ti chiami? -
E lei, rivolgendosi agli amici, come per chiedere aiuto
- Linguam nostram non intellegit!... -
Ecco… stavo finalmente capendo qualcosa. Scandito più lentamente e ad alta voce, quell’idioma mi sembrava latino. Provai a risponderle facendo appello alle mie libresche competenze di quella lingua.
-Ave -
Il viso le si illuminò di una luce radiosa e, prendendomi la mano
- Ave … ego Clodia-
- Giacomo - le risposi lusingato.
Attaccammo bottoni e mentre cercavamo, tra molte difficoltà, di capirci, notai un giovane con lo sguardo fisso su di noi e con l’evidente intenzione di carpire quello che ci stavamo dicendo. Gli sorrisi.
Con il disagio di chi è colto in flagrante, si avvicinò a noi, mi sorrise anche lui e, rivolto a Clodia, per quello che riuscii a capire, le chiese di lasciarci soli. La vidi imbronciarsi, poi, con un cenno della mano, mi salutò e si confuse tra gli altri.
- Veni – mi disse, lui, con tono supplice e di comando.
Entrammo in un thermopolium. Ci servirono del vino e, mentre lo sorbivamo, come rivolto a sé stesso, sussurrò
- Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior -
Lo riconobbi.
- Catulle esne ? -
- Sum … et illa… illa quacum parlasti, Lesbia…nostra Lesbia… illa quam Catullus unam plus quam se atque suos amavit omnes…-
La sua voce era colma di commozione e di pianto. Era la voce di un uomo che ama e che soffre, di uno che, digerita la rabbia, si è ripiegato su se stesso. Un uomo bastonato e vinto.
Mi supplicò.
- Si tibi vis oculos debere Catullum aut aliud, si quid carius est oculis, eripere mihi noli multo quod carius mihi est oculis, seu quid carius est oculis… -
Capii.
Mi supplicava di lasciargliela… Potevo chiedergli tutto, persino gli occhi… me li avrebbe dati se io gliela lasciavo.
Mi sentii stringere il cuore… per lui… per la sua sofferenza.
Cercai di fargli capire che non doveva temere nulla da me… che non gli avrei mai fatto del male.
Mi ascoltava ed io parlavo e mi chiedevo.
- Come può essersi ridotto in questo stato un giovane come lui… leale, generoso, colto… uno che ha amato e continua ad amare ancora oggi nella storia e nella memoria tutti? … -
Pensai a me, al mio rapporto con lei dopo la litigata, al mio amore per lei come progetto di vita.
No… non avrei chiuso la nostra storia con le ultime parole di Catullo nec meum respectet, ut ante, amorem, qui illius culpa cecidit velut prati ultimi flos, praetereunte posquam tactus aratro est.. No.
Prima di chiudere la mia storia con lei avrei cercato di parlarle ancora… avrei cercato altre vie per riallacciare i nostri sogni.
E poi… - mi dissi – sono più fortunato di lui… Grazie a Dio lei, la mia puella, è ancora puella, ha la mia età e non ha marito.
Mi sentii rinfrancato e, perché lui non se ne accorgesse, mi coprii il viso con le mani quando, inaspettata e improvvisa, mi cadde una pacca sulle spalle.
Sobbalzai.
- Oggi c’è Catullo… Lo hai studiato? –
Avete mai provato la sensazione di un muro che si sgretola e torna la luce? Ebbene quella, per me, non fu solo una sensazione ma anche un dato di fatto.
Mi ritrovai lì da dove ero stato trappato da uno strano processo di delocalizzazione.
Mi tappai le orecchie per difendermi dai clacson e dalle voci concitate dei miei compagni.
- … se l’ho studiato?... Non solo l’ho studiato… ho anche parlato con lui -
Scoppiarono tutti a ridere, ma io li lasciai perdere.
Con il cuore ero ancora con lui… con Catullo.
Il suo amore, la passione, la rabbia, l’abbandono con cui li aveva vissuti da dominatore e da vinto, il tono anche dimesso e supplice con cui mi aveva parlato, se per un verso avevano cementato l’empatia tra me e lui, dall’altro mi avevano dato la schioccata giusta perché mi raddrizzassi e guardassi con più ottimismo e decisione al mio futuro e al mio rapporto con lei.
Chiusi nuovamente gli occhi e, con trasporto confidenziale, gli sussurrai:
- Grazie amico -
11 giugno 1959. Ultimo giorno di scuola dell’ultimo anno di liceo.
Dovrei essere felice ma non è così.
Ci siamo riversati fuori dall’aula apparentemente sorridenti e con l’aria franca di chi si è finalmente liberato di un peso che ci opprimeva da anni.
Camminiamo lungo il corridoio e chiacchieriamo.
Voci alte, voci sommesse, piccole risate… come sempre, come ogni giorno.
Ma oggi non è come ogni giorno…È l’ultimo della terza liceo.
Siamo usciti dall’aula per non rientrarvi mai più al suono del campanello.
Questo pensiero mi dà una stretta al cuore.
Guardo i miei compagni …
Alcuni sono spensierati… altri, come me, con un’ombra di tristezza.
Fuori c’è il sole… Abbagliati ci difendiamo, poi… un tuffo coraggioso in quella luce che ci inonda.
La giornata è meravigliosa. In altri momenti ci saremmo gioiosamente dispersi, ma oggi nessuno ha voglia di lasciare gli altri.
A frotta ci dirigiamo verso la nostra pasticceria senza insegna… quella di zia Rata … quella che ogni volta ci adesca con i suoi profumi caldi e intensi e con le offerte a modico prezzo…
Cioccolatini e dolcetti passano da uno all’altra tra un vociare disordinato.
Ci dirigiamo in villa.
Ci sono i vecchi a scaldarsi al sole…
Occupiamo le panchine libere… Alcuni rimangono in piedi… altri siedono sul bordo delle aiuole.
Parliamo e ridiamo ma nessuno dice… è finita!...
Forse inconsciamente o forse volutamente evitiamo i commenti su questo giorno… Lo ignoriamo e pensiamo agli esami…
Ed è proprio questo pensiero che ci proietta innanzi e ci impedisce di fermarci su quest’ultimo giorno che irrimediabilmente ci divide.
Ultimo giorno di scuola
Quell’11 giugno del 1959, suonò anche per noi l’ultima campanella. Ci disperdemmo fuori dall’aula con la stessa esuberanza di sempre. Girovagammo a lungo, senza meta, lontani da quelle mura. Andammo in villa e pareva che nessuno avesse il coraggio di allontanarsi per primo. Li ricordo tutti i miei compagni, ricordo la loro aria scanzonata, i loro sorrisi, il loro indugiare, il nostro tenerci stretti quasi a scongiurare il distacco. Ma il distacco sopraggiunse e di quel momento non conservo memoria come di un cordone ombelicale mai reciso. La vita ci portò lontani, per vie diverse, ma in me non si è mai affievolito il senso di appartenenza a quella mitica IIIA in cui eravamo tutti una cosa sola, a quella classe, alla nostra scuola, a quella che ci aveva aiutati a maturare con indulgenza e con severità, attenta a fornire a ciascuno gli strumenti giusti per investire i propri talenti nella vita. Ognuno di noi, con la diligenza di un alunno impenitente, li ha impegnati con serietà caparbia, qualcuno, però, suo malgrado, non ne ha potuto raccogliere a pieno i frutti, ha dovuto salutarci strada facendo e proprio allora il senso comune di appartenenza si è fatto sentire più forte che mai. Ancora oggi li ritrovo tutti quanti nella magia dei ricordi. Li ritrovo così, sorridenti e scanzonati, stretti l’uno all’altro, nel loro indugiare quasi a voler scongiurare il momento dell’addio. Allora insieme riprendiamo a camminare, a parlare, a sorridere, a progettare, a girovagare senza meta, tutti insieme, anche loro, ‘Zinuddo, Felice, Rosetta, Lillino che, andati via per sempre senza mai lasciarci, ritornano ogni volta, sorridenti e felici, a far parte di quella mitica banda.
Quello del 1959 fu il mio ultimo giorno di scuola
13 giugno 1959. Sant’Antonio
Un fuori programma in una giornata senza programma…
Stamattina, 13 giugno, uno di noi, pensando agli esami e pregando il santo del giorno, Sant’Antonio, d’improvviso è andato a cogliere la coincidenza tra Antonio, il nome del Santo, e Tonino, il nome del nostro professore di Scienze, nonché nostro commissario interno agli esami di maturità.
Una novità, questa dell’onomastico, a cui nessuno prima di stamattina aveva mai fatto caso.
Allertati dal passa parola, ci siamo ritrovati in villa per parlarne e decidere sul da farsi.
Un … non possiamo far finta di niente... ha dato la stura ad un concitato accavallarsi di domande e di risposte.
- … Ma come abbiamo potuto non farci caso negli anni passati? -
- Già… Come?!...-
- Ma ti sei scordato che lo abbiamo sempre chiamato pselline?... –
- Già… pselline -
Glielo appioppammo questo epiteto in prima liceo dopo una sua dotta disquisizione sulle leguminose con nomi scientifici e corrispondenti dialettali.
- … e mo che facciamo? -
- … far finta di niente? … -
- … è l’ultimo anno… -
-… ma è il nostro commissario interno…-
- … appunto… giusto per salutarlo…-
La verità è che, nonostante le troppe esitazioni e difficoltà, nessuno di noi se l’è sentita di far finta di niente. Non averci fatto caso prima… ma, adesso?... Adesso, ignorarlo, ci avrebbe creato scrupoli e sensi di colpa che di certo non avrebbero alleggerito la nostra tensione in vista degli esami.
Cosa fare, cosa non fare, alla fine, abbiamo deciso di andare tutti insieme a fargli gli auguri.
- … a mani vuote?...-
-… e cosa?...-
- … naturalmente un presente discreto che non metta in imbarazzo né lui, né noi -
Così, scarta questo e scarta quello, abbiamo convenuto per un mazzo di fiori, il più acconcio anche alle nostre tasche.
Per la verità qualcuno ha avanzato delle perplessità ma, alla fine, abbiamo superato anche questa difficoltà, grazie alla felice intuizione di uno di noi.
- È vero che non è proprio azzeccato un mazzo di rose ad un maschio ma, se c’è la moglie, gli diciamo che è per lei… insomma, lo diamo a lei per lui -
Niente di più ragionevole e sensato.
Dal fioraio ancora discussioni. Questa volta tra noi e la commessa.
- Quali fiori… di che colore... per quale occasione!?...-
- Un mazzo di fiori da regalare a un maschio? ...-
- No… alla moglie per lui…-
- A lei per lui?... Ma mi state prendendo in giro? …-
Alla fine, si è arresa. Abbiamo pagato e ce ne siamo andati.
A casa del professore ci ha accolti proprio la moglie, una donna affabile e premurosa, che ci ha fatto accomodare in un’ampia sala da pranzo e, prima che aprissimo bocca, ci ha prevenuti con un sorriso malizioso:
-Siete i ragazzi della terza liceo vero?!… Avete gli esami quest’anno… e oggi è l’onomastico del vostro professore … -
Imbarazzo generale.
- Ragazzi miei… - ha aggiunto poi con voce materna e volto bonario -… vi pare che il professore non capisca il vostro stato d’animo… che non sia preoccupato anche lui per voi!?... In questo momento, mi dispiace, non è in casa… ma quando rientra riferirò… Vi ringrazio anche a nome suo…-
Ancora silenzio.
Avremmo voluto dirle che quei fiori erano per lei… no… erano per lui… ma tanto… lei aveva capito tutto!
Siamo usciti scornati e silenziosi come chi l’ha combinata veramente grossa.
Mogi mogi, disordinati ma tutti assieme, ci siamo diretti verso un unico non so dove, quando…
naso all’aria…
- Cos’è? -
Sì… era lui… proprio lui… il profumo irresistibile della pasticceria senza insegna di zia Rata.
Adescati da quel piacere consolatorio, non ci è rimasto che affogare la pena del nostro disastro nella beatitudine di un pasticcino alla crema.
Mai dire mai
Me la raccontava lui, di qualche anno più grande di me. Ora ve la racconto io la storia, dando voce alle emozioni, al compiacimento, al sorriso e alla malizia che animavano la sua narrazione che, nonostante i tanti anni trascorsi dall’episodio, ogni volta, conservava intatte freschezza e spontaneità.
Era carnevale e loro quell’anno avevano tanta voglia di goderselo. Il Preside, avendo subodorato nell’aria la ben nota animazione, come sempre, giocò di rimessa e, prevenendoli, con una circolare li ammoniva a non assentarsi.
In un ultimo disperato tentativo gli chiesero, al meno, il permesso di uscire alle dieci il Martedì Grasso. Quello per loro era l’ultimo anno e a giugno l’esame di maturità li avrebbe dispersi ognuno per la propria strada! Ma niente.
- Bisogna andare avanti col programma e voi non potete permettervi né deroghe né
distrazioni - tuonò il preside.
Ma loro quel carnevale volevano goderselo. Era l’ultimo che li vedeva insieme…
Il Professore di Italiano, per attutire l’amarezza del diniego, promise che non li avrebbe interrogati. Il lunedì avrebbero fatto compito in classe sul Leopardi e il martedì avrebbe spiegato. Figuratevi … Il lunedì compito in classe e proprio sul Leopardi! …Cotesta età fiorita/ è come un giorno d’allegrezza pieno… Godi, fanciullo mio… stagion lieta è cotesta! …
Le buone e paterne intenzioni del Professore sortirono l’effetto di una crudele provocazione. Era troppo se si considerava anche il fatto che scuola e famiglia, in quella circostanza, avevano stretto più che mai quel patto d’acciaio che, come sempre, niente e nessuno poteva né avrebbe potuto mai rompere. Nessuna indulgenza, né da parte della scuola né da parte delle famiglie, per chi si sarebbe assentato. Era veramente troppo! … Fumavano di rabbia, impotenti. Cosa fare? ...Votarsi a un Santo?!... Ma quale santo sarebbe stato loro complice nella trasgressione? Lasciando da parte gli antipatici del paradiso, neppure un’anima del purgatorio, impegnata com’era a traghettare su una sponda migliore, sarebbe stata disponibile ad aiutarli!... Eppure, un’anima c’era… C’era l’amico Leopardi che, se non era andato all’inferno e se non aveva cambiato idea sulla giovinezza, almeno per coerenza, poteva darsi che li avrebbe aiutati in un modo o nell’altro. Il sabato: - … Giacomino aiutaci… Giacomino fallo per noi!... - e, mentre il professore spiegava, le loro preghiere salivano al cielo come incensi… ma, ahimè, non successe nulla. Lunedì, compito in classe. Scontento e borbottio… - Fate silenzio e scrivete! - Chini sul compito, masticando una rabbia repressa, tenevano al guinzaglio la loro voglia matta di vivere quell’ultimo carnevale insieme. Nessuno, neppure uno di loro riusciva ad acchiappare un’idea da incollare sul foglio. Erano arrabbiati… arrabbiati con tutti, anche con il Leopardi che, in quanto a chiacchiere …
Scrivevano e cancellavano… cancellavano e scrivevano… Il professore riordinava il registro… qualcuno sbuffava, qualche altro parlottava. Il provocatore impenitente raccontava della sera prima, di come si era divertito lui con i suoi amici, un altro pure e poi un altro ancora. No… non era giusto… non era giusto fare finta di niente… Era o non era carnevale?!...Un bel tomo quel Leopardi che se ne stava sordo e indifferente! D’improvviso un tramestio e le voci concitate di due contendenti richiamarono l’attenzione di tutti
- Dammi…fammi vedere…-
- Non posso…non posso…- Dammi… -
e crac… un rumore, come di vetro infranto, gelò nel silenzio l’atmosfera.
Guardando l’espressione terrorizzata dei due litiganti tutti ebbero la sensazione di una quiete prima della tempesta e questo a dispetto di Giacomino, alias Leopardi.
Il professore scriveva. Nell’aria sospesa cominciò a diffondersi, sempre più intenso, un odore acre e pungente. Qualcuno cominciò a tossire, qualche altro a soffiarsi il naso, quasi tutti, loro mal grado, a piangere. Il professore, miope e ammalato d’occhi, cominciò ad agitarsi, a soffiarsi il naso, a premersi gli occhi che gli schizzavano dalle orbite e, dimenandosi, schizzò dalla cattedra, fiondò dritto dritto nel corridoio gridando aiuto e, dietro di lui, tutta la classe con una turbolenza incontrollata.
- … Che è successo…- Che è successo? … -
Accorsero allarmati i bidelli.
-… Che c’è…- Che c’è? …-
Arrivò il Preside e il personale di segreteria.
Richiamati dallo schiamazzo, alunni e professori delle altre classi cominciarono ad affluire nel corridoio… Una parola, due parole, sussurrate e trasmigrate quasi per osmosi dall’uno all’altro, e quelli della terza liceo in questione, arroccati a testuggine, furono al corrente del perché e del come tutto quello era successo.
- … Cosa è successo?... -
Silenzio. Il professore e gli alunni accidentati furono portati lontani dall’aula e fatti entrare in infermeria per i soccorsi del caso. Infine, tutti in presidenza.
-… Ma che è stato? ...- Che è successo?... –
Domanda senza risposta.
Tutti loro sapevano tutto ma, per un senso di solidarietà viscerale mai prima di allora sentito così prepotente, nessuno apriva né avrebbe aperto bocca… E mentre il Preside cercava di sturare l’omertà che li zittiva, entrò uno dei bidelli a riferire che nell’aula vuota, per terra, avevano trovato i frantumi di una fialetta… una fialetta lacrimogena… di quelle ultimo grido in fatto di scherzi di carnevale.
Il Preside, con gli occhi di bragia e le vene del collo che parevano scoppiare, in un delirio di impotenza cominciò a minacciare severi provvedimenti se non fosse venuto fuori il colpevole.
- … Chi è stato… chi è stato? … fuori il colpevole! …- e, coerente ad un ossimoro educativo, aveva tutta l’aria e l’intenzione di indurli con la forza alla delazione.
Silenzio che più silenzio non si poteva. Persa ormai ogni speranza li rimandò in classe accompagnandoli con una minaccia sinistra - … e aspettatevi il peggio! … -
Convocò d’urgenza il consiglio dei professori che, a porte chiuse, in men che non si dica, sentenziò una immediata sospensione di tre giorni e cinque in condotta a tutti per quel secondo trimestre.
Quel provvedimento, necessario e dovuto per un verso, dall’altro, da quello degli oppressi, ebbe il sapore provvidenziale di una giusta vendetta. Grazie a quella fialetta involontariamente rotta e al decreto punitivo del Consiglio dei Professori, giustizia era fatta. Potevano godersi finalmente quell’ultimo carnevale insieme ... D’altronde, per rientrare nei canoni e farsi perdonare, c’era ancora l’ultimo trimestre e poi… non è forse vero: mal comune mezzo gaudio… tutti colpevoli nessun colpevole? –
Una volta a casa, al processo di inquisizione familiare... Non lo so… Non sono stato io… Che colpa ne ho io! … non fu difficile convincere e acquetare i genitori.
Quella sera e poi ancora il Martedì Grasso nel tripudio dei festeggiamenti, più d’uno giurò di aver sentito una voce… Godi, fanciullo mio… stagion lieta è codesta!... Una voce che, se non veniva dall’aldilà, di certo parlava complice al cuore che, complice, rispondeva …Grazie, Giacomino… sei veramente un amico!
Uno di quei giovani, simpatici e mitici scavezzacolli, quello che me la raccontava ogni volta nei momenti nostalgici dell’amarcord, era lui, Luigi, mio marito. Lui che, dopo quarantasette anni di matrimonio e cinque figli se n’è andato senza mai lasciarmi. A lui va questo mio sussurro:
Te ne sei andato.
Tu ed io,
due tronchi di un’unica pianta
intrecciati tra loro.
Di me è rimasta
La torsione dolorosa
sull’abisso di un vuoto senza vita.
MADRE
Docile e silenziosa mi accompagni nella mia solitudine con i tuoi effluvi di borotalco e di lavanda, di bambini in fasce, di panni freschi di bucato, di tranquille poppate che lentamente si acquetavano nel sonno. Dolce e struggente ancora è il tepore della tua presenza, sensazione primigenia d’eterna purezza, di felicità perduta.
Io, figlia, divenuta madre, vorrei ridarti la vita, stringerti al petto e cantarti le tue lacrime mai piante, le tue gioie, le tue effusioni, la tua tenacia, il tuo immenso amore per la vita, il tuo incrollabile ottimismo, il tuo tutto d’amore. Si scioglie il mio petto e piange il paradiso perduto e tu, sinfonia della mia vita, discreta e caparbia, mi conforti ancora nel cammino.
Moglie premurosa e discreta, madre adorabile di cinque figli, nonna chioccia, colonna portante, forza centripeta e coagulante, sapevi lenire, acquetare, ridare coraggio, riaccendere il sorriso e la gioia di vivere.
Ricordi? Quando ci parlavi del tuo paese, ammiccando maliziosa e sorridendo come una ragazzina, non dimenticavi mai di postillarlo ogni volta come un paese stravagante e bislacco, lasciando intendere che anche tu, come il tuo paese, eri bizzarra, eri una fuori dalla norma. E tu lo eri veramente fuori dalla norma.
Non avevi peli sulla lingua, non temevi nulla in nome della verità e della lealtà. Sfidavi le punizioni più dure - ci dicevi - e, se tua madre da bambina ti minacciava di un qualche castigo, non ti ribellavi e pensavi… se è giusto me lo merito, se non è giusto se ne accorgerà e sarà lei a soffrire... Giustificavi la tua obbedienza e difendevi così anche il tuo orgoglio.
Ci raccontavi di com’era diverso dal nostro il tuo rapporto di figlia e nel racconto tradivi un certo rimpianto per le tenerezze che ti erano mancate, per le carezze che non avevi avuto. - Davamo del voi ai nostri genitori…e da mio padre mai una carezza, mai un bacio, mai una parola… Parlavamo con lui attraverso nostra madre e solo nelle grandi feste, o quando la domenica si tornava da messa e avevamo fatto la comunione, ci era permesso di baciargli la mano... Ci volevano bene mamma e papà, lo sapevamo. Nessuno dei figli lo aveva mai messo in dubbio, ma non c’era consentita nessuna effusione, nessuna confidenza.
- Adesso - dicevi ai tuoi nipotini - voglio mangiarvi di baci e stringervi finché avrò vita - Poi, rivolta a me - Voglio morire sazia. Hai nulla da obiettare? - Naturalmente tacevo. Con i nipoti avevi finalmente abbattuto quegli argini che stentavano a contenere il tuo amore per noi, tuoi figli.
Ricordi quando non trovavi altro verso per distrarre noi bambini dai nostri litigi? Prendevi due coperchi dalla dispensa e, irrompendo tra noi, cominciavi a batterli come fossero piattelli e noi cinque ti seguivamo in una marcia per casa fino a quando, saltando e ridendo, dimenticavamo i nostri capricci e le nostre litigate. Eri una simpatica pazzagliona! Sempre pronta, con una trovata, a ricomporre gli equilibri.
Non ti ho mai vista piangere, neppure nei momenti più bui. Tramutavi il dolore e la sofferenza in stimoli positivi per andare avanti verso un futuro migliore. Non ti sei mai lamentata. Hai sempre lottato anche contro l’impossibile, tranne quel giorno quando tutti noi, intorno al tuo letto, pregavamo che non ti arrendessi. Tu, invece, quel giorno, obbediente, ti addormentasti in un sonno senza risveglio, docile e serena, come una bambina sazia di baci.
Ma io, mamma, ancora oggi, ho fame e sete del tuo amore.
Il mio primo giorno di scuola
Se per primo giorno di scuola s’intende quello canonico, prescritto e atteso con ansia e trepidazione da tanti bambini e genitori, quello dell’entrata in classe accompagnati, spauriti e col magone, quello del distacco che inizia con un abbraccio di commiato e un lacrimone, ebbene, io quel primo giorno di scuola non lo ricordo affatto. Ricordo, invece, il mio primo, vero giorno di scuola, quello mio e soltanto mio, non prescritto, non programmato e non atteso, senza grembiulino e senza cartella, senza accompagnamenti né abbracci, né lacrime. Un giorno improvviso, casuale e, soprattutto, senza magone.
Avevo cinque anni, neppure l’età prescritta per quell’appuntamento. Insomma, non avevo nessuna carta in regola per quel primo incontro ed essendo primogenita di una numerosa nidiata nessuno mai aveva trovato il tempo di parlarmi di questo qualcosa dal nome scuola che mi avrebbe attesa di lì ad un anno. A quei tempi la scuola iniziava il primo ottobre, giorno di San Remigio, e remigini erano detti i bambini chiamati per quel primo incontro. Questo naturalmente venni a saperlo molto dopo e molto dopo mi venne di considerare che quel giorno era scritto già nel mio dna. Io, infatti, sono nata proprio il primo ottobre. Allora, però, non potevo e non avrei potuto fantasticare su questa coincidenza o accostamento che dir si voglia. Adesso che posso guardare in retrospettiva quel mio lontano orizzonte, mi piace arzigogolarci intorno ed associarlo alle tante altre coincidenze che hanno tracciato il percorso della mia vita.
Eravamo ad Amorosi, il mio paese natale, in provincia di Benevento.
Quel giorno avevo ottenuto da mia madre il permesso di uscire. Era una giornata di sole, non per luogo comune ma di fatto. Doveva essere di mattino inoltrato perché in via Roma, la via in cui abitavamo, non c’era il solito andirivieni di gente ormai al lavoro. Io e la signora che mi accompagnava camminavamo insieme ma ognuna per i fatti suoi. Io in cerca di qualcuno con cui giocare, lei in cerca di qualcuno con cui chiacchierare. Fatto sta che ad un certo punto mi trovai vicino ad una finestra a piano terra, aperta. Mi avvicinai al davanzale e sbirciai dentro. Vidi tanti bambini seduti, in silenzio, le braccia incrociate e il grembiulino nero. Per me una cosa insolita e misteriosa. Ancora più insolita e misteriosa quando, allungando di più il collo verso l’interno, vidi un signore che scriveva in bianco su una superficie nera. Catturata da quella stranezza rimasi ferma lì, a guardare, e neppure mi distolse l’animazione che andava scomponendo i grembiulini neri. Se ne accorse il signore che scriveva in bianco. Si voltò verso i grembiulini e, percorrendo a ritroso il tragitto di quell’animazione, dai bimbi alla fonte, con lo sguardo giunse a me ancora persa nel mio rapimento. Fui distolta dalla sua voce. Non ricordo quello che mi disse ma ricordo la tenerezza del suo atteggiamento e il tono amorevole della sua voce. I grembiulini neri si ricomposero. Non per timore di una punizione, perché non ricordo nessuna sgridata, ma, penso ora, perché in attesa dell’epilogo di quel fuori programma insolito anche per loro. Il signore venne verso di me. Mi chiese qualcosa che non ricordo e dovette invitarmi ad entrare perché mi aprì la porta di strada e, prendendomi per mano, mi accompagnò a sedermi al primo banco. Solo ora posso definire quell’entrata con un accostamento. Fu per me come la calata di Alice nel paese delle meraviglie. Tanti bambini tutti uguali nei loro vestitini neri, un signore amorevole che parlava di cose a me sconosciute, che ci avvolgeva nella magia di storie fantastiche e ci richiamava alla realtà con uno schiocco delle dita. E poi?... Poi un qualcosa che il signore invitò ad aprire. Lo chiamò sillabario. Era un libro. Aveva le pagine e da quelle pagine parlava ai bambini che, per magia, gli davano voce.
Tutto aveva per me il sapore di una favola.
Quando tornai a casa non dovetti dire niente a nessuno e nessuno mi chiese nulla, ma la voglia di ritornarci ancora, in quel luogo magico, non mi abbandonò mai nei giorni a seguire. Mi addormentavo sognandolo e mi svegliavo escogitando il modo di raggiungerlo.
Ci tornai altre volte.
Poi venne il freddo e quella finestra si chiuse.
Si chiuse anche il portone di casa mia e fu per me una lacerazione.
Di giorno cominciai ad agitarmi smaniosa per casa, ad essere irritabile e capricciosa, a starmene col naso appiccicato ai vetri a spiare il bel tempo.
Di sera, a letto, non riuscivo più a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo, frignavo e reclamavo ripetutamente Voglio il libro... Voglio il libro. La parola libro era l’unica con cui riuscivo a compendiare e a dare un nome a tutto quello che mi mancava e che io volevo. Ripresi a dormire solo quando mia madre riuscì a procurarsene uno e a portarmelo a letto ogni sera. Con quel libro tra le braccia ripiombavo nella magia della mia favola perduta.
All’altro anno, compiuta l’età per legge, qualcuno dovette accompagnarmi a scuola ma io quel giorno non lo ricordo.
Per tutti gli altri remigini quello era il primo giorno di scuola, per me no.
Io ero già una veterana.
Capita spesso di voler vagheggiare l’oggetto del proprio amore con il sorriso. A volte lo si gira e rigira, lo si distorce, come nel labirinto degli specchi, per amare anche il suo essere diverso. Così, spesso, ci divertiamo a sottoporre la persona amata al gioco affettuoso delle deformazioni. L’immagine che ne risulta, certamente non fedele all’originale, obbedendo, anche in questo caso, alle leggi fisiche della rifrazione, è sbilenca e distorta. Non corrisponde all’immagine autentica, ma è la distorsione affettuosa della persona cara che, pur facendoci sorridere, continuiamo, divertiti, ad amare anche nelle sue difformità.
Perché dico questo? Per farmi perdonare l’ironia, che per alcuni potrebbe apparire anche caustica, con cui ricordo, da insegnante, alcuni giorni di scuola. Mi sono permessa tanto, perché amo ed ho sempre amato la scuola. E’ stata per me quell’amica cara che, per spirito goliardico, potevo sottoporre al gioco delle deformazioni, sicura che mi avrebbe capita e perdonata e avrebbe riso e sorriso con me.
APPUNTI TRAGICOMICI DI UN’INSEGNANTE CRETINA
Siamo in aula Magna per uno dei tanti aggiornamenti a pioggia.
All’Ordine del Giorno, non letto ma intuito:
“Prolusione altamente specializzata e più altamente finalizzata ad esperienze altamente qualificanti per una scuola e per un insegnamento mai così altamente dequalificante come il vostro”…
Argomento gridato da un apparato pomposo di sussieghi e silenzi.
-Dunque - diceva lo specialista invocato a portare i suoi lumi alla soluzione del caso – dunque, avete capito?... Bisogna dare grande importanza al linguaggio mimico e a quello gestuale messi assieme…Voi non sapete quanta importanza abbiano questi linguaggi nell’insegnamento finalizzato…-
Mi chiedo - Finalizzato a cosa?... Non lo ha ancora detto – Un attimo di perplessità, poi una scrollata - … ma, tanto, uno dei molti e incalcolabili benefici di questi incontri altamente specializzati è proprio quello di sollevare dubbi e di lasciare nel dubbio… dubito ergo sum… Dubito?!... - sono frastornata - Forse cogito… Comunque dubito e cogito non mi sembrano poi così diversi fatta eccezione delle prime tre lettere. Ma forse tanta dotta prolusione non solo mi sta convincendo della mia idiozia ma addirittura mi sta facendo perdere la bussola o, meglio, disordinare le poche cose che tenevo ordinate…
L’uditorio, al pari di pecore che trovano senso e coraggio nell’unità del branco, ascolta timido e riverente.
Il preside, accanto al relatore, ha l’aria soddisfatta. Guarda il suo gregge con un sorriso come a dire: - Avete visto chi vi ho portato?... Sentite quanto è bravo!... Porca miseria, è tutto vero quello che sta dicendo…-
Di riflesso, anche noi abbozziamo un sorriso di compiaciuto assenso. Non sappiamo se per la battuta intuita o per altro, ma quel sorriso andava abbozzato.
Una collega, che gode la stima d’ essere tra le più colte e tra le insegnanti più brave e perspicaci (se non si vuole credere agli altri, che per riserbo non si pronunciano su di lei, si creda almeno a quello che lei stessa dice di sé) temendo che nel sorriso del preside ci sia un invito a lei rivolto, alza il ditino e, al cenno del relatore, azzarda:
Lei sa che per l’Italiano, la mia materia, è d’obbligo questo e devo dire che ne ho sperimentato l’indiscutibile efficacia -
La modestia del ditino alzato viene sopraffatta dall’orgoglio nella voce di aver preceduto con la sua esperienza ciò che teoricamente le è stato rivelato dal dotto relatore.
- Pensi che ho fatto costruire delle scatole colorate, coloratissime…-
E qui le brillano gli occhi dalla soddisfazione per aver applicato uno dei principi fondamentali della pedagogia.
-…e delle palle colorate…coloratissime…-
Mi sorge il dubbio che sia rimasta un po’ indietro nel tempo e nello spazio… I nostri ragazzi hanno undici anni e più…
-…ho messo la pallina colorata sulla scatola coloratissima…-
Al preside si gonfia il petto. L’ esperienza d’avanguardia della bravissima insegnante fa giustizia all’efficienza sua e della sua scuola. Annuisce e pare voglia scoppiare dalla soddisfazione. Sorride con sufficienza come a voler dire all’esperto relatore: - Ha visto che brillante espediente ?… Noi siamo pratica rispetto alle sue teorie … Le scatole e le palle colorate! Altro che linguaggio mimico e gestuale! … E poi… Una signora che colora le scatole e le palle invece di romperle sicuramente è dotata di un’elevata ingegnosità oltre che di indubbia originalità… Noi… noi siamo all’avanguardia anche in fatto di efficienza del personale!... -
Lui sorride e l’uditorio, perso nel religioso silenzio, sembra ascoltare rapito.
La collega continua:
-…e mi sono rivolta alla classe…La palla sta…sta?... Sulla scatola… risponde la classe in coro…Allora cos’è “su”?... una pre…una prep…Preposizione!…mi rispondono in coro…Faccio un buco su una scatola, vi faccio cadere la palla…La palla è nella scatola…Cos’è “nella”…una ..una pre…Preposizione!... mi rispondono i miei alunni soddisfatti e orgogliosi della conquista…-
Ai miei tempi noi alunni, sfidando la sospensione e lo spettro di un riformatorio, avremmo risposto una… una rottura di scatole, ma oggi i bambini sono diversi, molto diversi da quelli di ieri, oggi i bambini, se non sono handicappati, nella migliore delle ipotesi hanno tutti delle turbe la cui entità è vero che ci sfugge ma è pur vero che l’insegnante accorto ne percepisce la rovinosa presenza.
-…dunque – continua l’eccellente collega - lei mi può capire come questo linguaggio gestuale (!?) mi sia stato utile…-
L’uditorio rompe il silenzio con approvazioni soddisfatte…soddisfattissime. Il preside, più raggiante che mai, sembra dire - Ve lo dicevo io che questi aggiornamenti sono utilissimi… non solo per conoscere ma anche per farci conoscere!… -
Come poi abbia fatto la mia illustre collega a spiegare, con le palle in mano e le scatole coloratissime, le altre preposizioni a nessuno viene di chiederlo, nel timore di apparire ignoranti. E’ bastato a tutti l’aver scoperto che nelle palle colorate, coloratissime, è racchiuso il mistero della grammatica.
Ma, per il relatore, la mia collega bravissima ha peccato di presunzione e di troppo entusiasmo. Come defraudato di un diritto di prelazione sul suo bagaglio culturale, con aria di disgusto e di pietosa commiserazione comincia a scuotere la testa.
I commenti di approvazione si strozzano nel gargarozzo degli astanti e su tutti piomba un silenzio lacerante fatto di dubbi, interrogativi e sensi di colpa.
-…No, signori miei, non ci siamo…-
E vi pareva che un tale cervello potesse essere d’accordo con una massa ignorante come noi?
-…no, signori, il linguaggio gestuale non è quello…è quello con cui parliamo senza aprir bocca…è parlare stando zitti…-
L’uditorio va in apnea.
-…Come!?… parlare stando zitti?… Come si spiega la grammatica stando zitti? ...- balbetta agonizzante uno dalla massa.
Il preside sembra andare in apnea anche lui.
-Come…come!? … E’ ovvio … La domanda è stupida…- trancia scocciato il luminare.
L’uditorio soffoca la sua crisi di pudore in un silenzio paralizzante. Il preside chiede aiuto all’orologio. Il luminare si volge a lui e insieme si aggrappano a quell’unica boa di salvataggio. Si levano in piedi.
Il tempo è finito!
L’uditorio, imitandoli, esplode in una frenetica ovazione e, seguendo la corrente e battendo le mani, raggiunge la via d’uscita.
Neppure il tempo di raccogliere le mie cose e la sala è già vuota. Il corso di aggiornamento è finito. Mi alzo vuota, con il dubbio di non aver capito nulla e non aver concluso nulla ma con la certezza di aver messo fortemente in discussione le poche certezze che avevo e che ora non ho più.
Ad una mia alunna che ci ha lasciati
Aveva undici anni quando, abbracciando con uno sguardo complessivo i miei nuovi alunni, incontrai per la prima volta il suo sorriso disarmante e fiducioso.
Era, quello, il suo primo giorno di scuola media.
Sedeva in un banco di fronte alla cattedra, attenta, silenziosa, docile, buona.
Quel sorriso, il sorriso di quel primo giorno di scuola, fu il nostro viatico.
Fuori dai banchi di scuola il nostro rapporto di affetto, con il trascorrere degli anni, divenne amicizia fiduciosa e confidente.
Divenuta donna, non aveva mai smesso di vedere in me la sua vecchia insegnante e io di vedere in lei quella bimba indifesa e buona dallo sguardo dolce e disarmante.
Non so cosa io possa averle dato più di quanto non racchiudessero i libri di scuola ma so con certezza tutto quello che lei mi ha dato: la sua dolcezza, la sua pacatezza, il suo equilibrio, la sua sete di infinito.
Tutto di lei mi infondeva pace e mi apriva spiragli di luce nella turbolenza quotidiana.
Mi parlava di sé, dei suoi progetti, ma soprattutto della sua fede in Dio con un trasporto e un abbandono che, soli, testimoniavano il miracolo divino.
Non molto tempo fa mi fece dono di alcuni libri di spiritualità. Mi leggeva alcune pagine, le chiosava e spiava la serenità e le certezze che mi infondevano. Allora le condividevamo e raccoglievamo testimonianza della parola divina nelle esperienze della nostra vita.
Qualche inverno fa mi regalò due cappellini di lana perché non avessi a sentire il freddo gelido di quella stagione. Mi commossi.
Il cielo mi aveva fatto dono di un'altra figliola amorevole e premurosa. Poi sopraggiunse la malattia.
Ne parlava con serenità e accettazione e, quando i conti della speranza cominciarono a non tornare, era lei a tranquillizzarmi e, senza mai nascondermi nulla mi diceva... sono serena...sono nelle mani di Dio.
I ruoli si erano invertiti. Ero io a prendere lezioni di vita da lei.
La vita continua dopo la morte ripeteva e sorrideva col sorriso fiducioso di una bambina. Io la ricordo così e, se cerco di incontrarla nel mio cuore, la ritrovo ancora con quel sorriso nella nuova vita in cui ha creduto, pronta a tendere una mano a tutti noi, a sostenerci nelle fatiche terrene, a guidarci verso quella luce e quell'amore di cui lei è parte. Ti voglio bene.
Un’insegnante brava, bravissima
- Ho sempre preteso dai ragazzi che non si perdano nei dettagli…nelle minuzie ... Che non diano nessun conto alle date e che stiano attenti soprattutto al contenuto…ai concetti… -….
Siamo di commissione agli esami di terza media. Sono la più giovane fra tutte e la mia collega, con alle spalle una rispettabile anzianità di servizio, mi onora della sua vetusta esperienza con la generosità e la carità cristiana di chi vuole elargire aiuto ai più bisognosi.
Mi sta illustrando il suo metodo d’insegnamento altamente prestigioso e apprezzato, profondamente coerente ai principi sommari di una moderna metodologia superficialmente, affrettatamente e acriticamente intesa, perché io ne faccia gran tesoro nella mia carriera.
Stiamo correggendo i compiti di Italiano, compiti da otto facciate, prolissi, pieni di luoghi comuni, di notizie segnate dall’anno, dal mese, dall’ora e dal minuto. La lettura e la valutazione degli elaborati, per me, diventa sempre più estenuante e sempre più sospirato è il momento che dovrebbe porre fine a questo lavoro massacrante. D’altronde le uniche intente alla correzione siamo noi due sole, la titolare della classe ed io. Le altre quattro di commissione, pur sedendo con noi, per non urtare la sensibilità della titolare con le loro interferenze, si tengono alla larga occupate in altro.
- E’ inutile… - confessa con orgoglio la titolare - ho sempre detto che queste sono ragazze incomparabili…ragazze che studiano e che, se la traccia non le soddisfa, si sentono tradite e ti schiaffano in faccia tutto il loro sapere…Sono un portento…dei mostri…e poi …come scrivono bene! … -
Guardo con stupore la mia collega, gongolante per tali capolavori di cultura, e mi chiedo se quello che dice è coerente con quanto affermato da lei in precedenza. In realtà i compiti sono corretti e scorrevoli nella forma, tanto che, solo a leggerli, ti senti risuonare nei timpani la cantilena di chi ha imparato tutto a memoria. Secondo me qualcosa non quadra ma lascio che la mia collega valuti le sue alunne come sempre ha fatto, secondo i criteri di sempre, senza interferire con i miei. Tra l’altro il tempo è uggioso e tutto fa desiderare una schiarita, un po’ di bello. Valutiamo fin lì con “pienamente soddisfacente “e con “ ottimo” gli elaborati cesellati cronologicamente, con la minuzia di un certosino quando, in un nuovo elaborato di turno, in rottura anche grafica con i precedenti, comincio a cogliere note estremamente discordanti dalla precedente musica. E’una musica più umana, più calda, più personale, più umile ma più calda. Non fa scattare nessun datario ma penetra con partecipazione e modestia in un problema che ha caratterizzato e caratterizza un po’ tutta la nostra storia dall’unità ad oggi, un problema che riguarda la povera gente, lo sfruttamento e l’emigrazione. La forma è semplice, animata da imperfezioni, ma il contenuto è frutto di una visione partecipata e sentita dell’argomento. Non vi è sfoggio né presunzione di sapere, ma decorosa autonomia del proprio pensiero. Ci sono anche delle ingenuità, dovute all’età e all’inesperienza, ma nell’argomentazione è il cuore che parla, è la sua mente che elabora e che condivide in modo semplice quello che ha letto e ha sentito dire.
– Questa è una che non si appende in cordata – penso tra me e, quasi involontariamente, mi lascio sfuggire un’esclamazione di compiacimento.
- ... bello… veramente bello!…-
La mia collega, nonché insegnante titolare della classe, brandendo a mezz’aria la matita rosso-blu, mi assale con una smorfia di disgusto.
- …bello?!...e questo lo definisci un bell’elaborato?... Così modesto e con tutti questi errori!?... -
-…di errori grammaticali ce n’è solo qualcuno… - azzardo - gli altri sono delle imperfezioni dovute all’interferenza di un linguaggio informale…La ragazza si esprime un po’ così…in modo colloquiale…un po’ personale… E’ vero, c’è qualche errore e ci sono delle imperfezioni, ma il contenuto è vero… è autentico… non secondo un copione…è originale… pensato…personale…-
- …ma che dici…questa è una ragazza che non è mai stata brava… In tutti gli anni ha strappato appena la sufficienza!... e poi, la forma! …La forma innanzi tutto! … Il contenuto?... Il contenuto verrà dopo…salviamo prima di tutto la forma!... -
- Ma - penso tra me - prima non aveva esordito affermando il contrario? -
Non me la tengo. Cerco di giustificarmi, di spiegare le ragioni di quella mia estemporanea valutazione, di difendermi, ma i tentativi non valgono a nulla, se non ad alimentare nei miei confronti l’acrimonia delle altre colleghe anziane richiamate all’ascolto dal tono di stizza della titolare.
Mi azzardo a giocare di rimessa e aggiungo che il contenuto è contenuto e la forma è forma… che il culto della forma, per paradosso, potrebbe portarci, da una parte, a sottolineare in blu tutta l’opera di un Giovanni Verga e dall’altra, ad accettare come validissimi i discorsi di uno schizofrenico, grammaticalmente perfetti ma senza alcun senso… L’ideale, ribadisco, sarebbe una corrispondenza tra l’uno e l’altro ma che, comunque, va tenuto in conto la capacità di un ragazzo di esprimere un proprio parere… di elaborare un suo pensiero, di esprimersi con originalità e formulare idee personali, di produrre e non ripetere o copiare… Al limite non si possono stabilire delle priorità tra contenuto e forma e che se proprio siamo tentati di farlo è giusto sottolineare la elaborazione critica e il taglio personale … La forma si può sempre migliorare. Ma è inutile…Io sono la più giovane, l’ultima arrivata, l’inesperta, la presuntuosa, la saccente… E così vengo messa a tacere dalle riprovazioni e dalla solidale antipatia delle colleghe che, grazie alla loro anzianità, per diritto di usucapione, rivendicano l’indiscutibile possesso del sapere.
AMICA RADIO
I miei ricordi più lontani risalgono ai primi anni del ’40. Avevo appena tre anni. Abitavamo ad Amorosi, un paesino di montagna di appena 1800 anime, attraversato dalle acque del Volturno e del Calore, meta promessa e desiderata delle nostre passeggiate nelle giornate di sole. Ci andavo con una signora che mi portava a spasso e più tardi con le suore dell’asilo. Le acque scorrevano quasi sempre lente e tranquille tra i ciottoli del greto e a volte si disperdevano fuori dal letto indugiando in mille rivoli. Con la compiacenza dell’una e poi delle altre mi divertivo scalza a rincorrerli e a fermare il loro corso con i miei piedini. Di quei giorni ricordo il luccichio argenteo delle acque, l’aria tersa e il sole sulla mia testa. Ricordo poi anche le fughe per i campi con tanta gente, le sirene del coprifuoco, i rifugi nella notte, il rumore delle bombe …C’era la guerra … e, se questo pensiero mi fa paura adesso, non ricordo che mi facesse paura allora. In quel paesino sbriciolato tra le alture scoprivo il mondo ed ero felice. Ero felice con il sole, con la pioggia e con la neve, quando andavo con gli sfollati per i campi e quando ero a casa e a casa conobbi la gioia di un’amica che mi avrebbe accompagnata per tutta la vita. Era a due ripiani, su quattro lunghi esili piedi. Pareva un armadietto o uno scaffale ma non era né l’uno, né l’altro. Era una radio. Una radio Marelli! ci teneva a puntualizzare mio padre… Si accendeva di notte, al buio, e lei parlava ai maschi di casa con le orecchie incollate e con il fiato sospeso. Vedevo mio padre insieme ad altri che ascoltavano con la cautela e la circospezione dei ladri, trattenendo il respiro e controllando ogni reazione, attenti solo a captare una voce che li teneva tutti quanti con il cuore in gola. Ascoltavano Radio Londra. Poi, un giorno, da quel mobile si diffuse una notizia che mandò in delirio tutti quanti … E’ finita…E’ finita!...Un accorrere di gente per le strade, un riversarsi a fiumana… Papà e mamma ci tenevano stretti e, piangendo e ridendo, si abbracciavano e ripetevano …E’ finita …E’ finita!...
La guerra era finita … Lo aveva annunciato lei, la nostra amica complice, quella sulle cui onde, disturbate troppo spesso da scariche elettriche, veleggiava l’unica speranza di tutti, la speranza di un ritorno alla normalità e alla pace. E ricordo per la prima volta le note di una musica riversarsi nell’aria, una cascata di coralli impazziti, e canti gioiosi, canti che, se parlavano d’altro, al cuore di tutti dicevano ...È finita!
Da quel giorno in avvenire il sodalizio tra la radio e noi divenne sempre più stretto e familiare. Il suo ricordo per me è sempre rimasto legato ai momenti più belli e più dolci della mia fanciullezza prima e della giovinezza poi. Ricordo le note gioiose e travolgenti di una canzone che invitava alla vita e all’amore e papà, impegnato ai fornelli, le accompagnava fischiettando.... Svegliatevi, bambine, alle cascine messer aprile fa il rubacuor…La radio, il sole, il fischiettare di mio padre che girava e rigirava il ragù con la cucchiaia di legno, l’odore che si spandeva e si mescolava alla musica, mia madre che rassettava e stendeva i panni in giardino… Sono le immagini mitiche della mia infanzia, quelle che mi nutrono e mi hanno nutrita per tutta la vita. E poi vi erano le domeniche di Pasqua quando a mezzogiorno si scioglievano le campane e tutti si baciavano, anche per strada, con chi neppure conoscevi, e subito si correva ad accendere la radio che era rimasta spenta dal giorno del mercoledì. Era un’esplosione di vita. Il cuore scoppiava di gioia. A tavola si mangiava con la radio accesa e si chiacchierava. Le voci che giungevano dall’altoparlante, ancora disturbate dagli scarichi, si mescolavano alle nostre e diventavano commensali con noi. A volte noi e la radio dissentivamo, altre volte andavamo d’accordo, per molti era una presenza autorevole, per altri amica, per tutti necessaria a completare un momento di convivialità e di gioia. Aveva sempre da dire qualcosa a tutti, analfabeti e colti, sani e malati, amanti della musica leggera e di quella lirica, della prosa e della poesia … Ci intratteneva, ci divertiva, ci istruiva, ci faceva compagnia, allontanava la solitudine. Ricordo con dolce nostalgia il saluto brioso e coinvolgente di Nunzio Filogamo … miei cari amici vicini e lontani, dovunque voi siate, buona sera, Silvio Gigli con Sorella radio, Narciso Parigi, Giorgio Consolini, Acchille Togliani, Carla Boni, Gino Latilla, Nilla Pizzi, Beniamino Gigli … Il pomeriggio, chiusa nella mia stanza, china sui quaderni, accanto a me la mia amica radio diffondeva brani di musica e addolciva la mia fatica di studente. Mi ricordo la piacevolezza di quelle mattine di scuola quando dalla Presidenza si annunciava per citofono in tutte le aule l’interruzione delle lezioni per ascoltare i racconti della radio per le scuole. In un silenzio assorto ascoltavamo rapiti e inseguivamo con la fantasia, ciascuno con la propria, i personaggi nelle loro avventure, nei loro sogni che diventavano le nostre avventure, i nostri sogni. La voce narrante, ora pacata, ora suadente, ora concitata e fratta, accompagnata dagli effetti sonori di un uscio che strideva, di una porta che sbatteva, della pioggia che cadeva lenta e impetuosa, faceva vibrare i nostri animi e i nostri visi impallidivano e si accendevano, si incupivano e sorridevano. E quando le ultime note del commento musicale si dissolvevano nell’aria noi rimanevamo ancora avviluppati nel mondo magico del racconto nel quale spesso ritornavamo con le nostre fantasie. E se è vero che il racconto aveva un autore, è anche vero che quel racconto diventava il mio racconto, il racconto di ciascuno di noi perché ognuno se lo ricostruiva nel suo immaginario a modo suo, secondo i suoi gusti e i suoi modelli. Ecco perché, quando più tardi mi capitò di vedere per televisione gli stessi racconti non li riconobbi più. La radio scatenava la nostra fantasia, la nostra immaginazione a tal punto che ciascuno imprimeva al racconto il sigillo della propria creatività.
Erano quelli gli anni del boom, gli anni dell’Italia mitica in cui il cuore di grandi e piccoli navigava sulle onde radio per sintonizzarsi sui canali dell’amore e della fantasia e cantare, gioire e sognare nel tripudio di una nazione tutta protesa verso un futuro ricco di speranze e di promesse.
In Danimarca
Nei miei primi anni di insegnamento chiesi il passaggio dal Classico alla scuola Media inferiore per potermi dedicare di più al mio privato. A trasferimento avvenuto, però, mi resi subito conto di aver fatto male i miei calcoli. La caduta, nel 1960, dello steccato degli esami di ammissione, quello che dalle elementari selezionava l’accesso alla media, e l’attuazione della obbligatorietà scolastica,
nel 1963, sconvolgendo radicalmente tutti gli assetti del precedente sistema, basato sulla selezione, avevano creato enormi problemi dinanzi ai quali noi docenti fummo colti impreparati.
La nuova utenza scolastica, allora definita di massa, poiché più numerosa ed eterogenea e con istanze e finalità diverse da quelle del passato, richiedeva obiettivi culturali e metodologie altre.
Per questo erano stati avviati corsi pomeridiani di aggiornamento, incontri e dibattiti serrati che lasciavano poco spazio al privato. Lo scoprii a passaggio avvenuto ma non mi scoraggiai. L’impegno con cui vissi quella nuova esperienza mi caricò di un entusiasmo mai più sopito, mi arricchì e mi affinò tanto sotto il profilo umano da farmi dire ancora oggi che, se rinascessi, rifarei, da insegnante, la stessa esperienza. Gli ostacoli, i tentativi e lo sforzo per superarli mi valsero a proiettarmi oltre e a caricarmi sempre più di una voglia caparbia di farcela. Le mie classi, formate sul principio della eterogeneità, giustamente concordato collegialmente, in realtà si presentavano fondamentalmente composte da due soli gruppi, molto distanti tra loro per preparazione e per estrazione sociale. Mancava del tutto un gruppo intermedio che facesse da collante tra i due opposti. L’ uno, minoritario, costituito da ragazzi appartenenti a famiglie più o meno abbienti, non presentava problemi rilevanti; l’altro, invece, costituito da coloro che, se non li avesse obbligati la legge, manco ci avrebbero pensato alla continuità scolastica, presentava problemi d’ogni specie e molto radicati. Di questi, alcuni erano figli di braccianti con lavori saltuari e gravi problemi economici, altri, residenti in campagna, come impegno prioritario avevano quello di aiutare i genitori nei lavori campestri per conto proprio o per conto di altri. Gli appartenenti a questo secondo gruppo, in classe - e dico in classe perché fuori, nella quotidianità, parlavano un dialetto ineccepibile - in classe si esprimevano in un dialetto ingentilito da innesti di un improbabile italiano, con intercalari ed esclamazioni inadatte e sconce di cui neppure lontanamente si rendevano conto e con ostentate inflessioni e primizie settentrionali, apprese da genitori e parenti emigrati. Una lingua che, se non era italiano, non era neppure dialetto. Questo mi creava non solo grossi problemi di natura didattica per l’immane lavoro di dissodamento, ma soprattutto problemi di natura relazionale. I miei interventi correttivi, oltre ad essere molto poco efficaci, ogni volta sortivano come effetto sicuro quello di marcare ancor più il divario già esistente tra i due gruppi, accentuando il disagio negli uni e la sicumera negli altri. Non rimproveravo e non punivo. Correggevo anche con garbo ma questo non bastava a spegnere i loro rossori o a impedire le loro reazioni di difesa. Tuttavia, bisognava necessariamente intervenire e mettere ordine nel loro eloquio separando il dialetto e l’italiano da una parte, gli ibridi e le parolacce dall’altra. Questa mi sembrò una strada giusta ma, in fase di rodaggio, mi accorsi che, se qualche risultato in termini di correttezza linguistica lo raggiungevo, con la mia insistenza didattica, sia pure garbata, accendevo ancor più rossori e timidezze a loro danno, lasciando inalterato il divario tra i due gruppi.
Come fare, come non fare, un giorno decisi di sperimentare una strategia del tutto sovversiva.
Avrei fatto del dialetto una materia di studio.
Fu una intuizione che, all’atto pratico, mi aiutò a superare buona parte degli ostacoli fino ad allora irremovibili.
Invitai tutti i ragazzi a parlare del loro paese, delle attività e dei mestieri, degli scrittori e dei poeti locali. Li invitai a riportare detti e proverbi dialettali evidenziandone la pregnanza semantica e il fascino evocativo. Fornita di un registratore, organizzai passeggiate per il paese, visite alle botteghe di piccoli artigiani, incontri con anziani che ci raccontavano nella loro lingua storie, abitudini di vita, usanze, tradizioni. Ricerca e scoperta di un tesoro in estinzione. Questo riempiva d’orgoglio i dialettofoni. Camminavamo uniti, chiacchierando, amalgamati dall’ interesse comune. Gli italofoni chiedevano spiegazioni ai dialettofoni e questi nel darle prendevano consapevolezza del lessico nazionale. Con il trascorrere del tempo mi accorsi che qualcosa stava cambiando e dall’orgoglio di appartenenza.
A scuola si sbobinava il materiale, si riordinava per aree e per tema, veniva distribuito ai vari gruppi eterogenei che, aiutandosi a vicenda, se lo spiegavano e lo traducevano in lingua italiana.
Lettera ad un’ amica,
Ninetta Nobile, collega svampita che mi manca tanto.
Hai lottato con il tuo male senza parlarcene, tu che ci investivi ogni volta con la tua esuberanza e noi che cercavamo di scansarti come il pericolo della giornata. Smentendoti clamorosamente te ne sei andata in silenzio, senza arrecare il ben che minimo disturbo all’indifferenza di chi è preso dalla fatica del vivere. Questa è stata la tua ultima trovata spiritosa che, credimi, non mi ha fatto neppure sorridere. Ci hai presi, mi hai presa di contropiede e, come sempre, non hai rinunciato a dare un tocco personale ad un evento che era il tuo evento. Non lo hai commentato con un madrigale…com’eri solita celebrare gli eventi altrui. Il silenzio e la discrezione con cui ci hai lasciati è stato il tuo poema di dolore e di sofferenza. Con il silenzio e la discrezione (che pensavo non ti appartenessero) hai suggellato il dramma della tua vita che doveva essere più pesante di quanto tu volessi farci intendere. Parlavi…parlavi…Ti appiccicavi e avevi sempre da dire e da ridire ma si capiva lontano un miglio che era un modo per riempire la tua solitudine, per stabilire un rapporto di vita e di condivisione con gli altri. Dicevi di confidare sempre in quella piccola parte di buono che c’è in ognuno … Lo dicevi a me... a me che tante volte ti ho evitata perché avevo da fare e non volevo essere scocciata!... Parlavi a quella parte di buono che era in me, quella parte che tu vedevi e che io neppure mi accorgevo di avere. Adesso ti cerco nei ricordi, nei silenzi, nelle note dei tuoi madrigali gelosamente custoditi nel mio diario. Mi manca la tua leggerezza, mi mancano le tue intrusioni, i tuoi madrigali, il tuo sorriso... Mi manchi, amica mia.
GIORNATE INTERMINABILI
Le giornate le sembravano interminabili. Non avrebbe mai creduto di poter disporre di tanto tempo libero quando i suoi due figli erano ancora in casa e le davano tanto da fare con i loro problemi e il loro disordine. Allora avrebbe dato chi sa cosa per avere un po’ di tempo tutto per sé. Suo marito continuava con i ritmi di sempre, anzi con il ritmo di sempre, immutato da anni ... Sempre quello, sempre lo stesso…Il copione di una giornata sempre uguale a se stessa, con la pioggia e con il sole…Lavoro, casa e lettura, nella sua poltrona, nel suo studio…Pareva che si fossero detto tutto, proprio tutto, che non avessero nient’ altro da dirsi.
Dopo tanti anni la vita scorreva con la precisione e la regolarità di un programmatore. Fin troppa calma era caduta su quella casa in cui si erano spenti persino gli echi del vociare dei suoi ragazzi, quegli echi che lei aveva tenuto caparbiamente vivi per sentirseli ancora vicini, per tenerli ancora con sé nella sua solitudine… Sua madre le diceva – i figli si allevano per gli altri – e lei lo aveva sperimentato sulla sua pelle e si era arresa a fatica a quella realtà per tanto tempo ignorata e poi scongiurata. Da quando i suoi ragazzi avevano messo su famiglia, lei si sentiva inutile e sola. Ognuno procedeva per la sua strada... i figli, il marito... ma lei no…lei non voleva e non sapeva rassegnarsi a procedere da sola per la sua strada. Il tempo aveva placato ma non distrutto in lei il desiderio di evasione da quella realtà che la faceva vegetare ma non vivere. Quanto avrebbe dato per rivivere le ansie e le palpitazioni di un tempo! Allora erano tutti una sola anima e nessuno di loro avrebbe mai sospettato di fare a meno degli altri.
Allora i piccoli le chiedevano – mamma, non è vero che non morirai mai? - e lei, sorridendo, li rassicurava che non li avrebbe mai lasciati, che sarebbe vissuta a lungo, tanto a lungo … fino a quando fossero diventati grandi…anzi più grandi del papà. E loro, rinfrancati, sorridevano, convinti che un’eternità li avrebbe separati da quel fino a quando.
Il tempo era passato. Con la ragione cercava di farsi capace del distacco ma con il cuore si ribellava. Aveva dato tanto ma avrebbe potuto dare ancora tanto. I capelli le erano diventati bianchi ma lei non aveva avuto il tempo di accorgersene. Aveva avuto sempre tanto da fare a casa e sul lavoro … aveva differito ad altro momento ogni sua vanità e ogni suo desiderio - tanto- si diceva- per quando saranno cresciuti avrò tanto tempo per me – I ragazzi erano cresciuti, si erano sposati e ora, lei, di tutto quel tempo libero non sapeva più che farsene. Si era ritrovata con i capelli bianchi e per amica una solitudine spaventosa. Nell’ingranaggio della sua vita qualcosa era saltato…qualcuno le aveva strappato il cuore. Era quello il tempo in cui avrebbe dovuto godersi la vita eppure i momenti più belli erano dietro le sue spalle, sepolti nel passato…
Dinanzi allo specchio impietoso si perse in quel muto soliloquio … No… quell’immagine canuta e sfiorita non poteva essere il riflesso di se stessa… lei era sempre quella dei venti anni… Lei aveva ancora tanta voglia di amare, sognare, vivere come a vent’ anni… Quella lì nello specchio non era che uno scherzo perfido… quella donna le rassomigliava solo nello smarrimento e nella solitudine… ma non era lei… Poteva essere sua madre…sì… sua madre … Lo stesso sguardo… la stessa canizie… le stesse spalle appesantite dagli anni. …Forse era proprio lei, sua madre, tornata a darle coraggio… Sentì prepotente il desiderio del suo conforto… tese le braccia... Contro la superficie fredda dello specchio sentì frantumarsi la sua anima affranta … I suoi occhi smarriti si persero negli occhi colmi di lacrime di quella cara immagine che svaniva nel nulla.
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Quando il cuore scalpita, ne combina di belle.
Era nel cuore di tutti, un sogno custodito e vagheggiato, pronto, ogni volta, a riaffiorare nelle scorribande del nostro amarcord, più prepotente, soprattutto negli ultimi tempi in cui la tradotta su cui viaggiamo, piuttosto che da altrove, ama prelevare il suo carburante dalle belle e buone cose del passato.
Il sogno?... Ritornare, a sessant’anni da quell’ultimo giorno di Liceo, nei banchi di scuola.
Ritornare per ritrovarci ancora tutti insieme, con la stessa gioia, con la stessa leggerezza di allora, con lo stesso spirito da camerati, fratelli come allora, come sempre!
Entrare in aula al suono del campanello, occupare gli stessi posti di allora, in quei banchi che furono muti interlocutori dei nostri progetti di vita, dei nostri sogni futuri, delle nostre speranze certe, in quei banchi da cui, piattaforma di lancio, in quel lontano 1959, ci saremmo staccati in decollo per il grande volo!
E il sogno si è avverato come per magia. Tutto in maniera spontanea e corale.
Seppure dispersi un po’ ovunque, ci siamo ritrovati tutti, noi e quelli non più tra noi.
A sessant’anni da quell’ultima volta, il 29 maggio scorso, abbiamo varcato, nuovamente, la soglia dell’aula che, vuota, ci attendeva. Abbiamo occupato gli stessi posti con lo stesso compagno e la stessa compagna di allora e, con la stessa animazione dei vecchi tempi, abbiamo cominciato a parlare, a chiacchierare, a ricordare, poi… Poi il momento più atteso e commovente: quello dell’appello. La preside del liceo Classico ha cominciato a chiamarci in ordine alfabetico.
Ciascuno di noi, ad uno ad uno, ha risposto presente. Per coloro che non potevano più rispondere, tutti quanti, ad una voce in coro, abbiamo risposto PRESENTE.
Proprio così. Anche loro erano presenti. Sfidando la sorte, anche loro erano tra noi e con noi nei banchi.
La commozione ha poi dato la stura ai ricordi. Momenti, storie ed emozioni di quel passato comune hanno cominciato ad intrecciarsi e a prendere vita, fondendosi in un presente fuori dal tempo.
Suonata la fine dell’ora, come da antica consuetudine, siamo usciti dall’aula e nell’atrio ci siamo uniti ai giovani maturandi che ci attendevano.
L’impatto è stato cordiale, gioioso e vivace come tra amici di vecchia data. Il frequentare, loro, e l’aver frequentato, noi, lo stesso Liceo Classico, i saperi della saggezza antica, le tensioni, i sogni, rimasti inalterati nel tempo, hanno giocato singolarmente e per tutti un ruolo magico e sorprendente, quello di un simpatico e caloroso collante.
Abbiamo parlato e discusso tutti quanti come tra vecchi camerati, noi maturi ancora giovani e loro giovani già maturi.
L’incontro si è concluso con una danza gioiosa e nostalgica come il nostro amarcord, tra giovani e anziani, sulle note briose del famoso valzer di Johann Strauss, Sul bel Danubio blu, quello che, in tempi lontani, segnava l’ingresso ufficiale dei giovani in società.
Con lo stesso intento, al suono delle sue note, abbiamo voluto consegnare i nostri meravigliosi giovani ai loro sogni e ai loro progetti di vita.
Ora gli esami di maturità sono finiti e voi, cari ragazzi, da quei banchi di scuola siete pronti a spiccare il grande volo. Abbiate sempre come viatico l’entusiasmo per le belle e buone cose della vita. Un grazie di cuore per esservi uniti a noi e aver gioito con noi. Grazie alla vostra Preside, ai vostri Professori, al Personale ausiliario, a tutta la Scuola. Con la vostra collaborazione, il vostro aiuto e la vostra partecipazione avete reso veramente speciale la realizzazione del nostro sogno. Grazie.
Quelli del ‘59
Anno 2015. La storia si ripete
Questa voglio proprio raccontarvela almeno per due motivi: perché è una storia d’amore in poche battute e perché quello della storia, molti di voi converranno con me, è un amore del tutto particolare, un amore che, al di là d’ogni limite di tempo e di spazio, accomuna e unisce in un unico presente tutte le generazioni.
L’anno scolastico era finito e quella era per tutti noi, nonni, figli e nipoti, la prima domenica di vera libertà.
Nella nostra casa al mare, in un colpo solo, avrei avuto la possibilità di godermi la mia numerosa famiglia e l’entusiasmo di tutti i miei nipotini alle prese con i progetti estivi, ma avevo fatto male i miei calcoli. In un andirivieni di grandi e piccoli, di canotti e teli da bagno che mi passavano davanti e di dietro, in quanto mamma e nonna, capii subito d’essere un’opzione fuori luogo. Tentai di mettermi fuori dalle loro rotte in attesa di una collocazione che non riuscivo a intravedere quando fui attratta da un vociare confuso… Mia figlia, insegnante di Lettere anche lei, accoglieva qualcuno con affettuoso entusiasmo … alcuni suoi alunni maturandi erano venuti a salutarla. Parlavano animatamente e con trasporto degli esami che si avvicinavano, dei loro impegni, delle loro previsioni, dei tanti progetti ancora da portare avanti insieme. Ebbi la sensazione che non avessero metabolizzato qualcosa. Mi tuffai nel loro entusiasmo e d’impeto azzardai: – Parlate come se vi doveste ritrovare ancora in aula … Ma lo sapete che la campanella non suonerà più per voi? - dissi, parafrasando John Donne.
Uno di loro, uscendo dal turbamento che li aveva colti… - Sì, lo so … - ammise e, con voce tenera e commossa, confessò - L’altro giorno sono tornato a scuola … Non c’era nessuno. Andai verso la mia aula... Era vuota … Entrai … Chiusi la porta. Soli… io e lei. A stento trattenni il groppo... L’accarezzai... Accarezzai i muri e i banchi…-
Tacque incapace a continuare.
Sentii una stretta al cuore, la stessa che lo aveva fatto tacere, la stessa che anche io avevo provato da ragazza in quell’ultimo giorno di scuola, la stessa che ancora oggi mi fa piangere il cuore di nostalgia.
Quel giorno anche per me e per i miei compagni di classe suonò l’ultima campanella. Ci disperdemmo fuori dall’aula, girovagammo a lungo e pareva che nessuno avesse il coraggio di allontanarsi per primo.
Catturata dal ricordo di un passato mai spento, il vociare dei nipotini e i rumori del tramestio intorno andavano dissolvendosi in un silenzio amico.
Mi tornarono tutti alla memoria, i miei compagni, anche loro, ‘Zinuddo, Gianni, Felice, Rosetta, Lillino… loro che, andati via per sempre, ogni volta tornano tra noi con la loro aria scanzonata, con i loro sorrisi, il loro indugiare, il nostro tenerci stretti quasi a scongiurare il distacco. Ma il distacco sopraggiunse e di quel preciso momento non ho mai conservato memoria come di un cordone ombelicale mai reciso.
La vita ci ha portati lontano, per vie diverse, ma in me non si è mai spento il senso di appartenenza a quella mitica IIIA, a quella Scuola che, anche nei suoi limiti, fu per tutti noi un’oasi di aggregazione e di crescita.
Uno scossone improvviso mi riportò nella concitazione dell’andirivieni.
I canotti, entrati in rotta di collisione, erano in cerca di una via di salvataggio e i giovani maturandi, sopraffatti e travolti, venivano trascinati fuori, in un bagno di sole.
Li vidi riversarsi in strada e disperdersi verso il mare. Rimasi a guardarli. Correvano, ridevano, si cercavano e si prendevano per mano senza mai lasciarsi. Rividi me e i miei compagni in quell’ultimo giorno di scuola. Loro e noi. Due generazioni distanti e diverse, eppure unite dallo stesso sodalizio d’amore senza tempo.
Lettera aperta ai maturandi di oggi e di sempre
A voi, che siete in fibrillazione per il nuovo volo, quello che vi darà la patente ufficiale di adulti, quello che vi traghetterà al di là della sponda agognata, che vi ratificherà il diritto alla scelta autonoma di un progetto di vita con le responsabilità che ne conseguono, prima di allontanarvi da quelle mura silenziose e discrete, da quei banchi in cui avete provato anche la gioia di un riposo ( e non solo dopo l’ora di educazione fisica) a voi dico: entrate nella vostra aula e, con la confidenza e l’amore che vi lega ad un’ amica fedele, accarezzatela con lo sguardo e sussurratele parole di gratitudine. Quell’aula non sarà più la stessa senza di voi e voi, forse non ora, ma sicuramente con il passare degli anni, vi accorgerete che vi manca e, in alcuni momenti, vi sentirete bruciare di nostalgia, proprio come per il primo amore. Ve lo dice una “matusa” che ancora oggi, alla sua età, più spesso e volentieri di quanto non facesse in passato, è solita rifugiarsi tra le sue mura percorrendo i sentieri della memoria. E lì vi trovo i miei compagni, le mie gioie, le mie pene fatte di niente, i miei insegnanti burberi che nelle scorribande del mio amarcord ho imparato ad amare più di quanto non li avessi mai amati. Quell’aula non è uno spazio circoscritto, è la mia giovinezza, è la custode delle mie fantasticherie incorrotte, delle mie speranze, dei miei sogni, di quelli realizzati e di quelli ancora in attesa e lei li custodisce gelosamente come fossero i suoi. L’insegnante che è in me ha deciso di non andare in pensione. Trepido ancora ogni anno per tutti voi, per voi che vi accingete a varcare questo importante guado e di cuore vi accompagno a traghettarlo con i migliori auspici e con un forte e sentito IN BOCCA AL LUPO.