Prosa
Famiglia

Mia madre

Docile e silenziosa mi accompagni nella mia solitudine con i tuoi effluvi di borotalco e di lavanda, di bambini in fasce, di panni freschi di bucato, di tranquille poppate che lentamente si acquetavano nel sonno.
Dolce e struggente ancora è il tepore della tua presenza, sensazione primigenia d’eterna purezza, di felicità perduta.
Io, figlia, divenuta madre, vorrei ridarti la vita, stringerti al petto e cantarti le tue lacrime mai piante, le tue gioie, le tue effusioni, la tua tenacia, il tuo immenso amore per la vita, il tuo incrollabile ottimismo, il tuo tutto d’amore. Si scioglie il mio petto e piange il paradiso perduto e tu, sinfonia della mia vita, discreta e caparbia, mi conforti ancora nel cammino.
Moglie premurosa e discreta, madre adorabile di cinque figli, nonna chioccia, colonna portante, forza centripeta e coagulante, sapevi lenire, acquetare, ridare coraggio, riaccendere il sorriso e la gioia di vivere.
Ricordi? Quando ci parlavi del tuo paese, ammiccando maliziosa e sorridendo come una ragazzina, non dimenticavi mai di postillarlo ogni volta come un paese stravagante e bislacco, lasciando intendere che anche tu, come il tuo paese, eri bizzarra, eri una fuori dalla norma. E tu lo eri veramente fuori dalla norma.
Non avevi peli sulla lingua, non temevi nulla in nome della verità e della lealtà. Sfidavi le punizioni più dure - ci dicevi - e, se tua madre da bambina ti minacciava di un qualche castigo, non ti ribellavi e pensavi…se è giusto me lo merito, se non è giusto se ne accorgerà e sarà lei a soffrire...Giustificavi la tua obbedienza e difendevi così anche il tuo orgoglio.
Ci raccontavi di com’era diverso dal nostro il tuo rapporto di figlia e nel racconto tradivi un certo rimpianto per le tenerezze che ti erano mancate, per le carezze che non avevi avuto.
- Davamo del voi ai nostri genitori…e da mio padre mai una carezza, mai un bacio, mai una parola…Parlavamo con lui attraverso nostra madre e solo nelle grandi feste, o quando la domenica si tornava da messa e avevamo fatto la comunione, ci era permesso di baciargli la mano... Ci volevano bene mamma e papà, lo sapevamo. Nessuno dei figli lo aveva mai messo in dubbio, ma non c’era consentita nessuna effusione, nessuna confidenza.
Adesso - dicevi ai tuoi nipotini - voglio mangiarvi di baci e stringervi finché avrò vita - Poi, rivolta a me - Voglio morire sazia. - Hai nulla da obiettare? - Naturalmente tacevo. Con i nipoti avevi finalmente abbattuto quegli argini che stentavano a contenere il tuo amore per noi, tuoi figli.
Ricordi quando non trovavi altro verso per distrarre noi bambini dai nostri litigi? Prendevi due coperchi dalla dispensa e, irrompendo tra noi, cominciavi a batterli come fossero piattelli e noi cinque ti seguivamo in una marcia per casa fino a quando, saltando e ridendo, dimenticavamo i nostri capricci e le nostre litigate. Eri una simpatica pazzagliona! Sempre pronta, con una trovata, a ricomporre gli equilibri. Non ti ho mai vista piangere, neppure nei momenti più bui. Tramutavi il dolore e la sofferenza in stimoli positivi per andare avanti verso un futuro migliore. Non ti sei mai lamentata. Hai sempre lottato anche contro l’impossibile, tranne quel giorno quando tutti noi, intorno al tuo letto, pregavamo che non ti arrendessi. Tu, invece, quel giorno, obbediente, ti addormentasti in un sonno senza risveglio, docile e serena, come una bambina sazia di baci.
Ma io, mamma, ancora oggi, ho fame e sete del tuo amore.

C’era la guerra

I miei ricordi più lontani risalgono al 1943. Avevo tre anni. Abitavamo ad Amorosi, un paesino di montagna di appena 1800 anime, attraversato dalle acque del Volturno e del Calore, meta promessa e desiderata delle nostre passeggiate nelle giornate di sole. Ci andavo con una signora che mi portava a spasso e più tardi con le suore dell’asilo.
Le acque scorrevano quasi sempre lente e tranquille tra i ciottoli del greto e a volte si disperdevano fuori dal letto indugiando in mille rivoli. Con la compiacenza dell’una e poi delle altre mi divertivo scalza a rincorrerli e a fermare il loro corso con i miei piedini.
Di quei giorni ricordo il luccichio argenteo delle acque, l’aria tersa e il sole sulla mia testa. Ricordo anche le sirene del coprifuoco, il precipitarsi degli adulti, raccolti nella grande cucina, a spegnere le luci, a tappare le finestre, il pianto di Michele che dal seggiolone allungava le braccine verso papà che lo prendeva e lo stringeva al petto. Io rimanevo ferma tra le gonne e i pantaloni dei grandi e, sebbene alzassi la testa, non riuscivo a vedere i loro visi.
Sentivo il rombo degli aerei che passavano sopra le nostre teste, le raffiche intermittenti della contraerea, papà che diceva a Michele - non piangere, bello di papà, non piangere … non è niente! - le raffiche dei cannoni, il rombo degli aerei, il fragore dello schianto, una voce… - Hanno colpito! -
Non mi ricordo mai in braccio a qualcuno e neppure mi ricordo di aver avuto paura… La vicinanza di mio padre, di mia madre e di tanti mi dava la sensazione che tutto fosse un gioco, un gioco tra adulti. Lo capii dopo, molto tempo dopo, che quelli erano tempi di guerra, tempi brutti… C’erano i tedeschi, erano arrivati gli americani e in paese nessuno più era al sicuro. Dopo l’armistizio dell’8 settembre papà, dal Comando Militare di Napoli, presso cui era di stanza in qualità di militare della Guardia di Finanza e collaboratore, ottenuta la licenza per la nascita della terza figlia, aveva raggiunto Amorosi sulla camionetta di un alto ufficiale americano, con cui avrebbe dovuto far ritorno di lì a qualche giorno.
Il giorno del rientro, però, mia madre, che aveva partorito da poco, tanto fece e tanto disse... che era sola, che se mai accadeva il peggio lei non sapeva come fare con la bambina appena nata e altri due di noi... Insomma, tanto fece e tanto disse che lui, militare tutto d’un pezzo, per la prima e unica volta in tutta la sua vita, disobbedì all’ordine superiore e decise di non partire. Si venne poi a sapere che la camionetta del generale, quella con cui sarebbe dovuto ripartire anche lui, era saltata in aria nella conflagrazione del ponte sul Volturno.
Amorosi si trovava giusto nella fascia di fuoco dove tedeschi e americani si fronteggiavano e le rappresaglie erano continue e minacciose. Giungevano voci di rastrellamenti da parte dei tedeschi e, in paese, nessuno più era al sicuro. I miei, insieme a tanti altri, raccolte poche cose necessarie, qualche panno e quel poco che c’era da mangiare, sfollarono per la campagna in cerca di un rifugio più sicuro. Papà aveva una duplice funzione. Lo seppi molti anni dopo. Quella, in incognito, di perlustrare i luoghi per conto del Comando Americano e quella, palese, insieme ad altri civili, di proteggere noi sfollati durante gli spostamenti e aiutarci a trovare un rifugio sicuro durante le soste.
Mia madre, che aveva partorito da poco, portava la piccola Adriana in braccio, Michele era in braccio a papà, quando papà era con noi, e zia Memena e le nipoti badavano a me. Il primo giorno da sfollati fu veramente brutto… Non si sapeva da che parte andare. Lontani, lontani dal paese… ma verso dove? Il pericolo era dovunque. Avevamo fame. Quel poco o nulla che ciascuno portava con sé, raccolto alla rinfusa prima di partire, sarebbe stato insufficiente a sedare in tutti i morsi della fame. Briciole, compresa la teglia di polenta che zia Memena custodiva gelosamente e che tutti adocchiavano con sguardi famelici.
Fuori dal paese, in aperta campagna, sentimmo avvicinarsi da lontano il rombo di un aereo… Presi dal panico seguimmo in frotta mio padre verso un rifugio più vicino. Era una stalla. Entrammo di corsa. Affannati e rinfrancati ci lasciammo cadere tra le mucche. Anche zia Memena. Stanca, si liberò finalmente della teglia quando, nel tirare un profondo sospiro di sollievo, per poco non veniva meno per quello che le stava accadendo sotto gli occhi. Una mucca, placidamente, stava inondando dei suoi liquami la nostra polenta. Terminato l’allarme e venuta meno anche la speranza di quel boccone, riprendemmo a vagare per la campagna e a cercare rifugio nelle stalle e nei casolari… Quelli che si univano ci portavano notizie allarmanti… dei tedeschi traditi che si accanivano contro gli italiani… dei rastrellamenti in paese… di civili e militari fatti prigionieri… di una giovane rastrellata dai tedeschi e della mamma che, piangendo, aveva cercato di convincerli a lasciargliela in cambio di tutto l’oro che aveva, ma niente. I tedeschi se l’erano portata via sulla camionetta.
Una notte trovammo rifugio in una cantina ipogea, in piena campagna, presso un rudere che doveva essere stato una casa. Gli alleati stavano sferrando l’attacco finale alle truppe tedesche e noi stavamo proprio in mezzo, in quella che era chiamata la linea di fuoco. … Lì, sottoterra, pensavamo di essere al sicuro… Vi accedemmo da una porta sgangherata e scendemmo giù a sinistra lungo una scala che costeggiava la parete. Vuoto e buio… Arrivati giù, trovammo sistemazione sul pavimento, al centro del quale si apriva la bocca di un pozzo a cui in alto corrispondeva un’altra bocca da cui, fuori, si attingeva acqua con corda e secchio.
Papà lasciò che si sistemassero prima tutti gli altri lungo la parete, sullo strato di paglia che copriva il pavimento, per ultimi sistemò noi, vicini alla scala. Io mi sedetti alla sua destra, tra lui e la scala. Sulla sua sinistra mia madre con Adriana in braccio e tra lei e papà Michele che non si allontanava mai da lui. Papà aveva lasciato la pistola di ordinanza a casa. Era più sicuro andare disarmati. Si era sparsa la voce che i tedeschi sparavano a bruciapelo su chiunque avesse un’arma… Papà è vero che non aveva la pistola ma aveva in tasca un coltello che era pur sempre un’arma e questo non dava pace a mia madre.
Trascorremmo buona parte della notte senza parlare, sotto i colpi delle cannonate e le raffiche delle mitragliatrici. Papà più volte risalì in cima alla scala per spiare se vi era movimento nelle postazioni e fare valutazioni sulla nostra sicurezza. Ci rassicurava sempre… Ci diceva sempre che tutto andava bene…che non dovevamo temere nulla… - Era quello che tutti noi volevamo sentirci dire… - aggiungevano tutti quando raccontavano di quella notte a pericolo scampato - La morte ce la vedevamo con gli occhi –. Poi… Accadde tutto all’improvviso.
Uno stridore sordo e prolungato e in alto, in cima alla scala, comparvero due figuri che discutevano concitatamente… Erano tedeschi… Lo capirono dalla divisa e dal parlare. Il nostro silenzio si caricò di terrore… Cominciarono a scendere giù con l’aiuto di una torcia… Ci illuminarono… si fermarono un attimo… poi ripresero a scendere… Si sedettero accanto a me che ero la prima alla fine della scala. Erano in divisa e armati… Erano nervosi. Gli occhi di noi verso di loro. Fuori le bombe e la contraerea… Per tutti un tempo di silenzio e di paura.
Uno dei due tedeschi tirò fuori un pacchetto di sigarette e, per farne uscire una, cominciò a scuoterlo ripetutamente. Un giovane sfollato, uno di quelli in fondo alla parete, vuoi spinto dalla voglia di fumare, vuoi nel tentativo maldestro di rompere il ghiaccio, ebbe l’ardire di chiedergli una sigaretta … Il tedesco che stava accanto a me si indurì nel volto e nella persona, lo fulminò con lo sguardo, tirò fuori dalla fondina la pistola e, puntandogliela contro, masticò con rabbia la sua condanna... – Nichts … italiani traditori… sporchi traditori … -
Fu in quel preciso momento che io, con la manina, lo scossi per la manica del cappotto e gli chiesi guardandolo in volto… -  caramel…  a me caramel- Il suo sguardo incrociò il mio… Disorientato, esitò un attimo… I muscoli del viso gli si allentarono in un’espressione più mite e paterna. - …tu, bambina… sì… tu non capire… tu caramel… - Ripose la pistola nella fondina e, frugandosi in tasca, tirò fuori un pacchettino di caramelle. Me lo porse. Gli sorrisi…. Nessuno più osò fiatare.
A distanza di non so quanto tempo cessarono anche i fuochi delle contraeree. Cadde un silenzio spettrale. Il tedesco, quello che aveva preso la sigaretta e non l’aveva più accesa, risalì le scale e scomparve fuori dalla porta. Quando ricomparve guardò giù l’altro e, accompagnando le parole con un cenno eloquente della mano, ripeté - …kaputt…kaputt… -
Era l’annuncio della loro disfatta. Raggelammo dalla paura… - raccontava mio padre - Questa volta nessuno sarebbe scampato al peggio… E invece no… Il tedesco delle caramelle lo raggiunse in alto e tutti e due scomparvero nella luce fioca della porta spalancata…
Era spuntato un nuovo giorno. A distanza di tanti anni, soprattutto ora, colgo una sorprendente coincidenza: lì, in quel rifugio, quella notte fummo i primi testimoni della disfatta tedesca sul Volturno. Nient’altro di allora ricordo così nitidamente come quell’episodio, un nient’altro fatto solo di immagini isolate, di sprazzi tenuti in vita dai ripetuti racconti dei miei. Puzzle confusi che negli anni andavo sistemando in sequenze ordinate nel tentativo di ricomporre il mosaico dei miei primi anni. Ma quel mosaico non si è mai ricomposto del tutto. Dopo quella notte ricordo molti frammenti isolati di cui stento a trovare la collocazione in un racconto ordinato. Ricordo il verde della campagna, i fiori del giardino e la voglia di diventare io stessa un fiore. Ricordo che ne mangiavo le corolle e aspettavo. Aspettavo che avvenisse la mia trasformazione e, se non avveniva per allora, pensavo che sarebbe avvenuta poi. Ricordo le mura bianche di una masseria, una di quelle in cui, da sfollati, avevamo trovato ospitalità e rifugio, ricordo l’amicizia con i padroni, le stanze, linde e in penombra, con quell’odore acidulo di latte e di stallatico. All’ora della mungitura seguivo i secchi nella stalla. L’odore acre di urina e di fieno mi pungeva le narici ma la voglia di assistere alla mungitura era più forte del fastidio che provavo respirando. Dalle poppe gonfie sprizzava nei secchi un latte spumeggiante… Guardavo quella panna gonfiarsi e lievitare lungo i bordi dei secchi e aspettavo con la ciotola in mano una porzione di quel bendidio tiepido… Bevevo e sentivo le bollicine rompersi nella ciotola e sul mio labbro…
Ricordo lo squallore e il silenzio di via Roma quando tornammo in paese dopo quella brutta notte… il freddo, le macerie... La testata del letto dei miei era stata colpita da proiettili ma eravamo a casa e la guerra era finita, almeno per noi.
Per tutti, invece, continuava, dura, la lotta per la sopravvivenza. Non c’era da mangiare…mancava la farina… Si trovava solo di contrabbando e quel poco che si riusciva a trovare si diceva che era mista a segatura e a polvere di marmo… Quando andava bene si faceva il pane con la farina di mais. Soldi non ce n’erano e quelli che c’erano nessuno li voleva… non avevano più valore. Era ritornato il baratto e la farina e lo zucchero si acquistavano di contrabbando in cambio di oggetti d’oro, capi di vestiario, di corredo o altro.
Questo prima e dopo l’episodio che rimane tra i più belli della mia infanzia. Avvenne dopo la ritirata dei tedeschi dal Volturno, dopo quella notte in cui da sfollati sfiorammo la tragedia in quel pozzo-cantina. Nella mia memoria era una giornata di sole. I balconi di via Roma erano pieni di adulti e bambini che, sventolando fazzoletti e agitando le braccia, salutavano felici l’entrata in paese dei soldati americani che dalle carlinghe dei carri armati lanciavano in alto sui balconi e giù, tra la folla, manciate di pacchetti di caramelle. Noi bambini gridavamo – caramelle… caramelle!!! - in una sorta di gara a chi ne riceveva di più. Ne arrivarono anche sul mio balcone. Ricordo ancora quelle caramelle rotonde, col buco, colorate e dal sapore di frutta, un sapore che, quando le trituravo in bocca, diventava una vera goduria.
Gli americani erano i nostri amici, quelli che ci avevano liberati dai tedeschi, ma per me non faceva alcuna differenza… I tedeschi in quella cantina non ci avevano fatto alcun male e anche loro mi avevano dato le caramelle.
Ricordo il sole sui balconi e sulla terrazza e un brulicare di fermenti nuovi e vecchi della vita che ricominciava. 

La mia prima, cara amica

Ero felice con il sole, con la pioggia e con la neve, quando andavo con gli sfollati per i campi e quando ero a casa, e a casa conobbi la gioia di un’amica che mi avrebbe accompagnata per tutta la vita. Era a due ripiani, su quattro lunghi esili piedi. Pareva un armadietto o uno scaffale ma non era né l’uno, né l’altro. Era una radio.  Una radio Marelli!  ci teneva a puntualizzare mio padre… In tempo di guerra si accendeva di notte, al buio, e lei parlava ai maschi di casa con le orecchie incollate e con il fiato sospeso. Vedevo mio padre insieme ad altri che ascoltavano con la cautela e la circospezione dei ladri, trattenendo il respiro e controllando ogni reazione, attenti solo a captare una voce che li teneva tutti quanti con il cuore in gola. Ascoltavano Radio Londra. Poi, un giorno, da quel mobile si diffuse una notizia che mandò in delirio tutti quanti … E’ finita…E’ finita!...Un accorrere di gente per le strade, un riversarsi a fiumana… Papà e mamma  ci tenevano stretti e, piangendo e ridendo, si abbracciavano e ripetevano …E’ finita …E’ finita!...
La guerra era finita … Lo aveva annunciato lei, la nostra amica complice, quella sulle cui onde, disturbate troppo spesso da scariche elettriche, veleggiava l’unica speranza di tutti, la speranza di un ritorno alla normalità e alla pace. E ricordo per la prima volta le note di una musica riversarsi nell’aria, una cascata di coralli impazziti, e canti gioiosi, canti che, se parlavano d’altro, al cuore di tutti dicevano ...E’ finita!
Da quel giorno in avvenire il sodalizio tra la radio e noi divenne sempre più stretto e familiare. Il suo ricordo per me è sempre rimasto legato ai momenti più belli e più dolci della mia fanciullezza prima e della giovinezza poi. Ricordo le note gioiose e travolgenti di una canzone che invitava alla vita e all’amore e papà, impegnato ai fornelli, le accompagnava fischiettando.... Svegliatevi, bambine, alle cascine messer aprile fa il rubacuor…La radio, il sole, il fischiettare di mio padre che girava e rigirava il ragù con la cucchiaia di legno, l’odore che si spandeva e si mescolava alla musica, mia madre che rassettava e stendeva i panni in giardino… Sono le immagini mitiche della mia infanzia, quelle che mi nutrono e mi hanno nutrita per tutta la vita.
E poi vi erano le domeniche di Pasqua quando a mezzogiorno si scioglievano le campane e tutti si baciavano, anche per strada, con chi neppure conoscevi, e subito si correva ad accendere la radio che era rimasta spenta dal giorno del mercoledì. Era un’esplosione di vita. Il cuore scoppiava di gioia. A tavola si mangiava con la radio accesa e si chiacchierava. Le voci che giungevano dall’altoparlante, ancora disturbate dagli scarichi, si mescolavano alle nostre e diventavano commensali con noi.
A volte noi e la radio dissentivamo, altre volte andavamo d’accordo, per molti era una presenza autorevole, per altri amica, per tutti necessaria a completare un momento di convivialità e di gioia. Aveva sempre da dire qualcosa a tutti, analfabeti e colti, sani e malati, amanti della musica leggera e di quella lirica, della prosa e della poesia … Ci intratteneva, ci divertiva, ci istruiva, ci faceva compagnia, ci faceva sentire meno soli in Ostuni, un paese a noi del tutto sconosciuto, in cui ci eravamo appena trasferiti.
Ricordo con dolce nostalgia il saluto brioso e coinvolgente di Nunzio Filogamo … miei cari amici vicini e lontani, dovunque voi siate, buona sera, Silvio Gigli con Sorella radio, Narciso Parigi, Giorgio Consolini, Acchille Togliani, Carla Boni, Gino Latilla, Nilla Pizzi, Beniamino Gigli … Il pomeriggio, chiusa nella mia stanza, china sui quaderni, accanto a me la mia amica radio diffondeva brani di musica e addolciva la mia fatica di studente.
Mi ricordo la piacevolezza di quelle mattine di scuola quando dalla Presidenza si annunciava per citofono in tutte le aule l’interruzione delle lezioni per ascoltare i racconti della radio per le scuole. In un silenzio assorto ascoltavamo rapiti e inseguivamo con la fantasia, ciascuno con la propria, i personaggi nelle loro avventure, nei loro sogni che diventavano le nostre avventure, i nostri sogni. La voce narrante, ora pacata, ora suadente, ora concitata e fratta, accompagnata dagli effetti sonori di un uscio che strideva, di una porta che sbatteva, della pioggia che cadeva lenta e impetuosa, faceva vibrare i nostri animi e i nostri visi impallidivano e si accendevano, si incupivano e sorridevano. E quando le ultime note del commento musicale si dissolvevano nell’aria noi rimanevamo ancora avviluppati nel mondo magico del racconto nel quale spesso ritornavamo con le nostre fantasie. E se è vero che il racconto aveva un autore, è anche vero che quel racconto diventava il mio racconto, il racconto di ciascuno di noi perché ognuno se lo ricostruiva nel suo immaginario a modo suo, secondo i suoi gusti e i suoi modelli. Ecco perché, quando più tardi mi capitò di vedere per televisione gli stessi racconti non li riconobbi più. La radio scatenava la nostra fantasia, la nostra immaginazione a tal punto che ciascuno imprimeva al racconto il sigillo della propria creatività.
Erano quelli gli anni del boom, gli anni dell’Italia mitica in cui il cuore di grandi e piccoli navigava sulle onde radio per sintonizzarsi sui canali dell’amore e della fantasia e cantare, gioire e sognare nel tripudio di una nazione tutta protesa verso un futuro ricco di speranze e di promesse.

Mio padre

Nel giardino ritrovai i fiori di campo e ripresi a masticarne i petali e ad aspettare. Ricordo le camere riordinate e spruzzate di ddt. Mi piaceva quell’odore perché suggellava la fine di un lavoro che mi aveva voluta lontana dai piedi e perché sapeva di un pulito più pulito. Dalle imposte socchiuse penetrava un fascio di luce ed io, con il ditino, mi divertivo a mettere in subbuglio le particelle agitate e iridescenti del suo pulviscolo. Mi fermavo incantata a contemplarlo. Una miriade di corpuscoli che volteggiavano in una danza libera e silenziosa. Si univano e si scioglievano in un movimento morbido e soffice, senza meta e senza sosta. Incantata, sognavo anch’io di navigare in quel mare iridescente, in balia di quel movimento silenzioso e senza fine.
I sogni e gli odori della mia infanzia!... L’odore delle rose rosse del giardino, intenso e inebriante… l’odore dei fiori di campo, tenue e delicato… Lo sentivo più al palato che all’olfatto… L’odore di lisciva del bucato... l’odore della grande cucina in cui la fragranza del pane appena sfornato si mescolava all’odore voluttuoso dei biscotti e delle torte… l’odore del ragù della nostra cucina piccola, quello che la domenica si spandeva giù per le scale fin nell’atrio di ingresso… Ricordo papà accanto ai fornelli, la domenica, quando era libero dal servizio… Amava cucinare ma soprattutto improvvisare intrugli e manicaretti. Fischiettava e l’odore del ragù si spandeva e si mescolava per casa alle note musicali della radio Marelli, quella che, in tempo di guerra, si accendeva solo di notte per seguire radio Londra. Si mescolava alle note delle canzoni in voga… Canta, carovaniere, canta la nenia che tormenta tutti i cuori della tribù… E’ primavera, svegliatevi bambine… Pino solitario, ascolta… Vipera… Angelina, ti porterò nel mio cuor… Laggiù nell’Arizona, terra di sogni e di chimere… A mezza notte va la ronda del piacere… O sole mio… Feniculì feniculà…
La pentola sulla fornacella borbottava, la radio trasmetteva, lui fischiettava e mamma canticchiava. A volte cercava di cantare anche lui ma era stonato come una campana rotta… Non riusciva a modulare i toni della voce. Allora attaccava mia madre a dare un saggio stupendo delle sue abilità canore. Non una nota incerta, non un passaggio stonato ma uno scorrere dolcissimo e sentimentale di note fluide e armoniose. Anche quando parlava, la tua voce era una musica che veniva dal cuore…
Cantavano sempre quando erano felici. Papà amava anche ballare. Da giovane era stato un ballerino provetto e aveva vinto diverse gare di ballo. Fu lui il mio maestro di ballo e il mio primo ballerino. Piccolina, mi insegnò a ballare il valzer, il tango, la polka, il charleston e quell’amore non mi ha mai più abbandonata. Ho ballato e ballo ancora con le movenze che lui mi ha insegnato, soprattutto con il corpo eretto e la grazia che deve distinguere un ballerino di classe.
Colacicco, così lo chiamava mia madre anche quando si rivolgeva direttamente a lui, Colacicco si faceva voler bene e tutti gli volevano bene… Era sempre disponibile per tutti, non stava mai fermo ed era lui ad organizzare le feste ad Amorosi… Ricordo i fuochi d’artificio a San Michele, la festa del patrono. Il paese di sera si riversava nella piazza, tutti con le sedie, per assistere allo spettacolo pirotecnico. Colacicco era con i fuochisti ed era lui a dirigere lo spettacolo… a scegliere... decidere… Ad ogni figura pirotecnica seguivano battimani di entusiasmo e di approvazione come a teatro. Quando il botto finale decretava la fine, tutti gli applausi erano per lui… per Colacicco, mio padre….
In quel paesino, sbriciolato su un fazzoletto di terreno, scoprivo il mondo ed ero felice.

Agli albori della vita

Il pensiero della morte da poco più che bambina mi angosciava. Non di giorno, quando la luce del sole illuminava tutto intorno la mia casa, la campagna, la mia stanza, il volto dei miei cari. Si insinuava subdolo la notte, quando si spegneva l’ultima luce e il silenzio pareva inghiottire tutto. Allora, rannicchiata sotto le coltri, mi sentivo piombare come in una voragine senza fondo, lentamente, inesorabilmente e nel petto lo smarrimento lievitava fino a stringermi la gola.
Mi prendeva l’angoscia del vuoto, del nulla, giù giù, in fondo alla voragine in cui precipitavo lentamente, molto lentamente come un corpo senza peso. Mi figuravo massi informi in una luce terrigna… Quello doveva essere il prima dopo il nulla. Ma come si era passati dal nulla al prima? L’angoscia mi devastava l’anima. Il nulla e la morte, l’inizio e la fine e, tra l’uno e l’altro, la vita, io, mio padre, mia madre…
Al solo pensiero che mio padre e mia madre sarebbero scomparsi mi angosciava più della mia stessa morte. Una ribellione selvaggia contro la vita che mi nascondeva il suo mistero mi prendeva e la vita e la morte per me diventavano la stessa cosa. La vita, la morte, il nulla … Io, mio padre e mia madre eravamo quei massi informi in fondo all’abisso senza alcuna ragione al nostro esistere.
Nelle mie elucubrazioni ogni notte disperatamente speravo che in quell’ abisso senza fondo si aprisse uno spiraglio di luce a portare speranza alla mia angoscia. In quello smarrimento mi aggrappavo all’idea di dio … E se veramente la vita ha inizio da Dio e finisce in Dio?... Se tutto ha inizio dalla luce e finisce nella luce?... La luce… Dio…E prima di loro?... Non c’è forse qualcos’altro prima di loro? … E prima di questo qualcos’altro?
L’angoscia tornava a stringermi nella sua morsa. Nella mia mente l’immagine di un dio a cui volevo disperatamente credere, alla cui esistenza mi aggrappavo come a un’ancora di salvezza, andava sovrapponendosi a quei massi informi e si identificava con quell’abisso immobile. Toccavo allora il culmine dell’angoscia. Mi sentivo indifesa e sola nella voragine di quel mistero. Invocavo allora il sonno senza il quale mi sembrava impossibile acquetarmi.
Al mattino i miei occhi si aprivano su un fascio di luce che irrompeva dalla finestra socchiusa. Una gioia incontenibile mi invadeva. Quel sole, quella luce erano reali … una realtà che nessuna elucubrazione, nessun sofisma mai avrebbe potuto mettere in dubbio. Quel sole non potevo toccarlo ma lo vedevo … mi illuminava, mi scaldava, mi rivelava le cose intorno e io, mio padre, mia madre, in quella luce, eravamo presenze vive, con una ragione alla nostra esistenza: amarci, come il sole, in un unico abbraccio. E pensavo: la luce è sole, il sole è calore, il calore è amore, l’amore è dio, dio è luce, dio è vita, la vita comincia dall’amore e finisce nell’amore così come il giorno era cominciato con il sole e sarebbe finito non con le tenebre della notte ma con la luce del nuovo giorno.

Amica Radio

I miei ricordi più lontani risalgono ai primi anni del ’40.  Avevo appena tre anni. Abitavamo ad Amorosi, un paesino di montagna di appena 1800 anime, attraversato dalle acque del Volturno e del Calore, meta promessa e desiderata delle nostre passeggiate nelle giornate di sole. Ci andavo con una signora che mi portava a spasso e più tardi con le suore dell’asilo. Le acque scorrevano quasi sempre lente e tranquille tra i ciottoli del greto e a volte si disperdevano fuori dal letto indugiando in mille rivoli. Con la compiacenza dell’una e poi delle altre mi divertivo scalza a rincorrerli e a fermare il loro corso con i miei piedini.
Di quei giorni ricordo il luccichio argenteo delle acque, l’aria tersa e il sole sulla mia testa. Ricordo poi anche le fughe per i campi con tanta gente, le sirene del coprifuoco, i rifugi nella notte, il rumore delle bombe … C’era la guerra … e, se questo pensiero mi fa paura adesso, non ricordo che mi facesse paura allora. In quel paesino sbriciolato tra le alture scoprivo il mondo ed ero felice. Ero felice con il sole, con la pioggia e con la neve, quando andavo con gli sfollati per i campi e quando ero a casa e a casa conobbi la gioia di un’amica che mi avrebbe accompagnata per tutta la vita.
Era a due ripiani, su quattro lunghi esili piedi. Pareva un armadietto o uno scaffale ma non era né l’uno, né l’altro. Era una radio.  Una radio Marelli!  ci teneva a puntualizzare mio padre… Si accendeva di notte, al buio, e lei parlava ai maschi di casa con le orecchie incollate e con il fiato sospeso. Vedevo mio padre insieme ad altri che ascoltavano con la cautela e la circospezione dei ladri, trattenendo il respiro e controllando ogni reazione, attenti solo a captare una voce che li teneva tutti quanti con il cuore in gola.
Ascoltavano Radio Londra. Poi, un giorno, da quel mobile si diffuse una notizia che mandò in delirio tutti quanti … E’ finita… E’ finita!... Un accorrere di gente per le strade, un riversarsi a fiumana… Papà e mamma  ci tenevano stretti e, piangendo e ridendo, si abbracciavano e ripetevano … E’ finita … E’ finita!...
La guerra era finita … Lo aveva annunciato lei, la nostra amica complice, quella sulle cui onde, disturbate troppo spesso da scariche elettriche, veleggiava l’unica speranza di tutti, la speranza di un ritorno alla normalità e alla pace. E ricordo per la prima volta le note di una musica riversarsi nell’aria, una cascata di coralli impazziti, e canti gioiosi, canti che, se parlavano d’altro, al cuore di tutti dicevano ...È finita!
Da quel giorno in avvenire il sodalizio tra la radio e noi divenne sempre più stretto e familiare. Il suo ricordo per me è sempre rimasto legato ai momenti più belli e più dolci della mia fanciullezza prima e della giovinezza poi. Ricordo le note gioiose e travolgenti di una canzone che invitava alla vita e all’amore e papà, impegnato ai fornelli, le accompagnava fischiettando.... Svegliatevi, bambine, alle cascine messer aprile fa il rubacuor…La radio, il sole, il fischiettare di mio padre che girava e rigirava il ragù con la cucchiaia di legno, l’odore che si spandeva e si mescolava alla musica, mia madre che rassettava e stendeva i panni in giardino… Sono le immagini mitiche della mia infanzia, quelle che mi nutrono e mi hanno nutrita per tutta la vita.
E poi vi erano le domeniche di Pasqua quando a mezzogiorno si scioglievano le campane e tutti si baciavano, anche per strada, con chi neppure conoscevi, e subito si correva ad accendere la radio che era rimasta spenta dal giorno del mercoledì. Era un’esplosione di vita. Il cuore scoppiava di gioia. A tavola si mangiava con la radio accesa e si chiacchierava. Le voci che giungevano dall’altoparlante, ancora disturbate dagli scarichi, si mescolavano alle nostre e diventavano commensali con noi.
A volte noi e la radio dissentivamo, altre volte andavamo d’accordo, per molti era una presenza autorevole, per altri amica, per tutti necessaria a completare un momento di convivialità e di gioia. Aveva sempre da dire qualcosa a tutti, analfabeti e colti, sani e malati, amanti della musica leggera e di quella lirica, della prosa e della poesia … Ci intratteneva, ci divertiva, ci istruiva, ci faceva compagnia, allontanava la solitudine.
Ricordo con dolce nostalgia il saluto brioso e coinvolgente di Nunzio Filogamo … miei cari amici vicini e lontani, dovunque voi siate, buona sera, Silvio Gigli con Sorella radio, Narciso Parigi, Giorgio Consolini, Achille Togliani, Carla Boni, Gino Latilla, Nilla Pizzi, Beniamino Gigli … Il pomeriggio, chiusa nella mia stanza, china sui quaderni, accanto a me la mia amica radio diffondeva brani di musica e addolciva la mia fatica di studente.
Mi ricordo la piacevolezza di quelle mattine di scuola quando dalla Presidenza si annunciava per citofono in tutte le aule l’interruzione delle lezioni per ascoltare i racconti della radio per le scuole. In un silenzio assorto ascoltavamo rapiti e inseguivamo con la fantasia, ciascuno con la propria, i personaggi nelle loro avventure, nei loro sogni che diventavano le nostre avventure, i nostri sogni. La voce narrante, ora pacata, ora suadente, ora concitata e fratta, accompagnata dagli effetti sonori di un uscio che strideva, di una porta che sbatteva, della pioggia che cadeva lenta e impetuosa, faceva vibrare i nostri animi e i nostri visi impallidivano e si accendevano, si incupivano e sorridevano. E quando le ultime note del commento musicale si dissolvevano nell’aria noi rimanevamo ancora avviluppati nel mondo magico del racconto nel quale spesso ritornavamo con le nostre fantasie. E se è vero che il racconto aveva un autore, è anche vero che quel racconto diventava il mio racconto, il racconto di ciascuno di noi perché ognuno se lo ricostruiva nel suo immaginario a modo suo, secondo i suoi gusti e i suoi modelli. Ecco perché, quando più tardi mi capitò di vedere per televisione gli stessi racconti non li riconobbi più. La radio scatenava la nostra fantasia, la nostra immaginazione a tal punto che ciascuno imprimeva al racconto il sigillo della propria creatività.
Erano quelli gli anni del boom, gli anni dell’Italia mitica in cui il cuore di grandi e piccoli navigava sulle onde radio per sintonizzarsi sui canali dell’amore e della fantasia e cantare, gioire e sognare nel tripudio di una nazione tutta protesa verso un futuro ricco di speranze e di promesse.

Raccontiamoci, mamma.

Colloquio tra me e mia madre, ormai viva solo nel ricordo. Della mia infanzia ad Amorosi ho solo bei ricordi, anche la guerra per me è un bel ricordo. Non avevo la consapevolezza della morte e nemmeno la percezione del pericolo. - Ero con te, c’era anche papà e neppure mi sfiorava il timore che in un modo o nell’altro avreste potuto lasciarmi… Non sapevo ancora cosa fosse la morte…

IO - Ricordo le sirene del coprifuoco, il precipitarsi degli adulti, raccolti nella grande cucina, a spegnere le luci, a tappare le finestre, il pianto di Michele che dal seggiolone allungava le braccine verso papà che lo prendeva e lo stringeva al petto… Io rimanevo ferma tra le gonne e i pantaloni dei grandi e, sebbene alzassi la testa, non riuscivo a vedere i loro visi. Sentivo il rombo degli aerei che passavano sopra le nostre teste, le raffiche intermittenti della contraerea e papà che diceva a Michele… - Statti zitto, belle e papà…nun è niente…nun è niente - Ricordo anche dei rombi stranamente continui seguiti da un fragoroso boato e qualcuno nel buio della stanza che diceva…- è stato colpito…- Io non mi ricordo mai in braccio a qualcuno e neppure mi ricordo di aver avuto  paura… C’eravate voi. Questa consapevolezza mi ha accompagnata sempre, anche quando mi avete lasciata … non ho smesso mai di sentirvi accanto a me, anche adesso che mi avvio alla vecchiaia.
TU - Quelli erano tempi di guerra… tempi brutti… C’erano i tedeschi ed erano arrivati gli americani… In paese non eravamo più sicuri…… Adriana era nata da qualche giorno e Colacicco aveva avuto il permesso… il tempo di vedere la bambina e il comando gli ordinò di tornare subito a Napoli con la camionetta di un generale che si trovava nella zona. Tanto feci e tanto dissi… che ero sola… che non sapevo come fare… con la bambina appena nata e altri due figli… una di tre e uno di due… con la guerra … che se ci succedeva qualcosa chi mi dava una mano?… Lui disobbedì al comando…Tu lo sai… tuo padre era fortemente legato al dovere… ma quella volta si lasciò convincere e decise di non partire… La sera venimmo a sapere che la camionetta del generale, quella con cui doveva partire anche lui, era stata bombardata dai tedeschi mentre attraversava il ponte sul fiume Volturno… qualcuno aveva fatto la spia… Nella vita tutto è destino… in cielo è scritto il destino di ciascuno di noi…Amorosi si trovava nella fascia di fuoco …tedeschi e americani si fronteggiavano… In paese nessuno era più al sicuro…
IO - Raccoglieste le poche cose necessarie… qualche panno… le cose da mangiare e sfollammo per la campagna in cerca di un rifugio più sicuro. Papà faceva il capo branco… andava in perlustrazione con altri civili per controllare se la strada era libera e sicura e per trovare un posto sicuro per la notte.
TU - Io avevo partorito da poco e portavo la bambina in braccio, Michele era in braccio a papà, quando papà era con noi, e zia Memena e le nipoti badavano a te. Il primo giorno da sfollati fu veramente brutto… non sapevamo dove andavamo… avevamo fame e da mangiare c’era solo una teglia di polenta che aveva portato zia Memena… Da lontano sentimmo avvicinarsi il rombo di un aereo… Lì vicino c’era una stalla… Colacicco ci fece entrare tutti di corsa… Dentro ci lasciammo cadere sulla paglia tra le mucche… Zia Memena, stanca,poggiò la teglia per terra… appena il tempo di tirare un sospiro di sollievo che una mucca si voltò e fece pipì proprio sulla polenta… Vagavamo per la campagna cercando rifugio nelle stalle e nei casolari… Quelli che si univano a noi ci portavano notizie allarmanti… dei tedeschi traditi che si accanivano contro gli italiani… dei rastrellamenti in paese… di civili e militari fatti prigionieri… di una giovane rastrellata dai tedeschi e della mamma che piangendo cercava di convincerli a lasciarla in cambio di tutto l’oro che aveva ma la camionetta se l’era portata via e non si seppe più nulla di lei. Una notte trovammo rifugio in una cantina in piena campagna presso un rudere che doveva essere stato una casa. Gli alleati stavano sferrando l’attacco finale alle truppe tedesche e noi stavamo proprio in mezzo, in quella che era chiamata la linea di fuoco. … Lì, sotto terra, pensavamo di essere al sicuro…
IO - Era un pozzo-cantina per le derrate alimentari, vuoto e buio… Vi accedemmo da una porta sgangherata e scendemmo giù a sinistra lungo una scala che costeggiava la parete… Papà lasciò che si sistemassero prima tutti gli altri, in fondo, sullo strato di paglia che copriva il pavimento, per ultimi noi,vicini alla scala. Io mi sedetti sulla destra accanto a lui, sulla sua sinistra tu tenevi Adriana in braccio e tra voi due Michele che non si allontanava di un passo da papà.
TU - Papà aveva lasciato la pistola di ordinanza a casa… era più sicuro andare disarmati… Si era sparsa la voce che i tedeschi sparavano a bruciapelo su chiunque avesse un’arma… Tuo padre è vero che non aveva la pistola ma aveva un coltello in tasca … era sempre un’arma e questo non mi dava pace…
IO - Trascorremmo buona parte della notte senza parlare, sotto i colpi delle cannonate e le raffiche delle mitragliatrici. Papà più volte risalì in cima alla scala per spiare se vi era movimento nelle postazioni e fare valutazioni sulla nostra sicurezza.
TU - Tuo padre ci rassicurava sempre… ci diceva sempre che tutto andava bene… che non dovevamo temere nulla… ed era quello che tutti noi volevamo sentirci dire anche se la morte la vedevamo con gli occhi.
IO - Accadde tutto all’improvviso. Uno stridore sordo e prolungato e in alto, in cima alla scala, comparvero due figuri che discutevano concitatamente… Erano tedeschi… Il nostro silenzio si caricò di terrore… Cominciarono a scendere giù aiutandosi con una torcia… Ci illuminarono… si fermarono un attimo… poi ripresero a scendere… Si sistemarono accanto a me che ero la prima dopo le scale, accanto a mio padre… Erano in divisa e armati… Li guardavamo alla luce della torcia lasciata accesa. Silenzio… Fuori le bombe e la contraerea… Erano nervosi… Uno dei due prese a scuotere un pacchetto di sigarette… Un giovane sfollato che era con noi in fondo al pozzo, vuoi perché spinto dalla voglia di fumare, vuoi nel tentativo maldestro di instaurare con loro un rapporto amichevole, chiese una sigaretta anche per lui… Il tedesco che stava accanto a me si indurì nel volto e nella persona, lo fulminò con lo sguardo, impugnò la pistola e, puntandogliela contro, masticò con rabbia la sua condanna... - Nain sigaretten… italiani traditori… sporchi traditori … - Fu in quel preciso momento che io, con la manina, lo scossi per la manica del cappotto e gli chiesi guardandolo in volto… - nix caramel… - Il suo sguardo incrociò il mio…esitò disorientato un attimo… I muscoli del viso si sciolsero in un’espressione protettiva - …tu bambina… sì… tu non sapere… tu sì caramel… - Ripose la pistola e, frugandosi nelle tasche, tirò fuori un pacchettino di caramelle… me lo porse ed io gli sorrisi…. Nessuno più fiatò. A distanza di non so quanto, il tedesco, quello che aveva preso la sigaretta e non l’aveva più accesa, risalì le scale e scomparve fuori dalla porta. Quando ricomparve guardò l’altro giù che doveva essere un superiore e ripetè - …kaput…kaput… -
TU - Era l’annuncio della loro disfatta… Raggelammo dalla paura… Questa volta nessuno sarebbe scampato al peggio…
IO - E invece no… Il tedesco delle caramelle lo raggiunse in alto e tutti e due scomparvero nella luce fioca della porta spalancata…
TU - Era spuntato un nuovo giorno…
IO - Nient’altro di allora ricordo così nitidamente come quell’episodio, un nient’altro fatto solo di immagini isolate e sprazzi tenuti in vita dai tuoi continui riferimenti quando me ne parlavi. Puzle confusi che negli anni andavo sistemando in sequenze ordinate nel tentativo di ricomporre il mosaico dei miei primi anni. Ma quel mosaico è rimasto di frammenti. Dopo quella notte così nitida ricordo il verde della campagna, i fiori del giardino e la voglia di diventare io stessa un fiore. Ricordo che ne mangiavo le corolle e aspettavo…aspettavo che avvenisse la mia trasformazione e se non avveniva per allora sarebbe avvenuta poi. Ricordo le mura bianche di una delle masserie in cui ci eravamo rifugiati da sfollati. La guerra era finita ma noi avevamo stretto una solida amicizia con i padroni e continuavamo ad andarci nelle belle giornate di sole. Le stanze padronali erano linde e in penombra ma sempre con quell’odore acidulo di latte e di stallatico. Ero libera di andare dovunque. All’ora della mungitura seguivo i secchi nella stalla. L’odore acre di urina e di fieno mi pungeva le narici ma la voglia di assistere alla mungitura era più forte del fastidio che provavo respirando. Dalle poppe gonfie sprizzava nei secchi un latte spumeggiante… Guardavo quella panna gonfiarsi e lievitare lungo i bordi dei secchi e aspettavo con la ciotola in mano una porzione di quel bendidio tiepido… Bevevo e sentivo le bollicine rompersi nella ciotola e sul mio labbro… Ricordo lo squallore e il silenzio di via Roma quando tornammo in paese dopo quella brutta notte… il freddo, le macerie... ma eravamo a casa e la guerra era finita… almeno per noi.
TU - …per tutti, invece, continuava, dura, la lotta per la sopravvivenza. Non c’era da mangiare…mancava la farina… La trovavi solo di contrabbando e quel poco che riuscivi a procurarti si diceva che era mista a segatura e a polvere di marmo… Quando andava bene si faceva il pane con la farina di mais. Soldi non ce n’erano e quelli che c’erano nessuno li voleva… non avevano più valore. Era ritornato il baratto e la farina e lo zucchero si acquistavano di contrabbando in cambio di oggetti d’oro, capi di vestiario, di corredo o altro.
IO - …e questo prima e dopo l’episodio che rimane tra i più belli della mia infanzia. Avvenne dopo la ritirata dei tedeschi sul Volturno, dopo quella notte in cui da sfollati sfiorammo la tragedia in quel pozzo-cantina. Nella mia memoria era una giornata di sole. I balconi e via Roma erano pieni di adulti e bambini che, sventolando fazzoletti e agitando le braccia, salutavano felici l’entrata in paese dei soldati americani che dalle carlinghe dei carri armati lanciavano in alto sui balconi e giù tra la folla manciate di pacchetti di caramelle. Noi bambini gridavamo - caramelle caramelle!!! - in una sorta di gara a chi ne riceveva di più. Ne arrivarono anche sul mio balcone. Ricordo ancora quelle caramelle col buco, colorate e dal sapore di frutta, un sapore che, quando le trituravo tra i denti, diventava una vera goduria. Gli americani erano i nostri amici, quelli che ci avevano liberati dai tedeschi, ma per me non faceva alcuna differenza… i tedeschi in quella cantina non ci avevano fatto alcun male e anche loro mi avevano dato le caramelle. Ricordo il sole sui balconi e sulla terrazza e un brulicare di fermenti nuovi e vecchi della vita che ricominciava. Nel giardino ritrovai i fiori di campo e ripresi a masticarne i petali e ad aspettare. Ricordo le camere riordinate e spruzzate di ddt. Mi piaceva quell’odore perché suggellava la fine di un lavoro che mi aveva voluta lontana dai piedi e perché sapeva di un pulito più pulito. Dalle imposte socchiuse penetrava un fascio di luce ed io, con il ditino, mi divertivo a mettere in subbuglio le particelle agitate e iridescenti del suo pulviscolo. Mi fermavo incantata a contemplarlo. Una miriade di corpuscoli volteggiavano in una danza libera e silenziosa. Si univano e si scioglievano in un movimento morbido e soffice, senza meta e senza sosta. Incantata, sognavo anch’io di navigare in quel mare iridescente, in balia di quel movimento silenzioso e senza fine. I sogni e gli odori della mia infanzia!...L’odore delle rose rosse del giardino, intenso e inebriante… l’odore dei fiori di campo, tenue e delicato… lo sentivo più al palato che all’olfatto…l’odore di lisciva del bucato... l’odore della grande cucina in cui la fragranza del pane appena sfornato si mescolava all’odore voluttuoso dei biscotti e delle torte… l’odore del ragù della nostra cucina piccola, quello che la domenica si spandeva giù per le scale fin nell’atrio di ingresso… Ricordo papà accanto ai fornelli, la domenica, quando era libero dal servizio… Amava cucinare ma soprattutto improvvisare intrugli e manicaretti. Fischiettava e canticchiava e l’odore del ragù si spandeva e si mescolava per casa alle note musicali della radio Marelli - quella che papà aveva comprato in tempo di guerra per seguire radio Londra di notte – si mescolava alle note delle canzoni in voga… Canta, carovaniere, canta la nenia che tormenta tutti i cuori della tribù… E’ primavera, svegliatevi bambine… Pino solitario, ascolta… Vipera… Angelina, ti porterò nel mio cuor… Laggiù nell’Arizona, terra di sogni e di chimere… A mezza notte va la ronda del piacere… O sole mio… Feniculì feniculà… La pentola sulla fornacella borbottava, la radio trasmetteva, lui fischiettava e tu canticchiavi. A volte cercava di cantare anche lui ma era stonato come una campana rotta… Non riusciva a modulare i toni della voce, allora attaccavi tu e davi un saggio stupendo delle tue abilità canore. Non una nota incerta, non un passaggio stonato ma uno scorrere dolcissimo e sentimentale di note fluide ed armoniose. Anche quando parlavi, la tua voce era una musica che veniva dal cuore…Cantavate sempre quando eravate felici. Papà amava anche ballare. Da giovane era stato un ballerino provetto e aveva vinto diverse gare di ballo. Fu lui il mio maestro e il mio primo ballerino. Avevo dieci anni… Mi insegnò a ballare il valzer, il tango, la polka, il charleston e quell’amore non mi ha mai più abbandonata. Ho ballato e ballo ancora con le movenze che lui mi ha insegnato, soprattutto con il corpo eretto e la grazia che deve distinguere un ballerino di classe.
TU - Colacicco… si faceva voler bene e tutti gli volevano bene… Non stava mai fermo ed era sempre disponibile per tutti… Era lui che organizzava le feste ad Amorosi…
IO - Ricordo i fuochi d’artificio a San Michele, la festa del patrono… il paese di sera si riversava nella piazza, tutti con le sedie, per assistere allo spettacolo pirotecnico …
TU - Colacicco era con i fuochisti ed era lui a organizzare lo spettacolo… a scegliere… decidere… ad ogni figura seguivano battimani di entusiasmo e,quando il botto finale decretava la fine, tutti gli applausi erano per lui… per tuo padre….

La befana

Il piacere che provo ancora oggi a starmene a letto ad occhi aperti nel silenzio della mia camera mi viene dalla lontana infanzia quando, nei giorni di febbre, avvolta nel tepore, in groppa alla fantasia sgusciavo fuori dalle coperte alla conquista dell’ignoto. Ricordo che al mattino, aprendo gli occhi, trovavo la penombra della mia cameretta solcata da un raggio di sole penetrato dalle imposte socchiuse. A volte capitava che al di là dei vetri intuissi un freddo gelido, allora il caldo del mio letto mi scioglieva le membra in un piacere intenso. Mi sentivo invadere da un benessere e da una felicità che mi rendevano leggera leggera… quasi una piuma librata nell’aria.
La mia stanza, già in ordine, mandava odore di pulito… Su tutto aleggiava la presenza vigile e silenziosa di mia madre. Quello era il momento magico dei miei sogni. Quando all’approssimarsi delle vacanze invernali rimanevo a letto, il pensiero della befana era quello che più di tutti occupava la mia mente e sbrigliava la mia fantasia. Non pochi erano i problemi che mi procurava. Mi faceva distrarre a scuola e mi rendeva pensierosa a casa. Quella vecchia, che senza mai farsi vedere mi estorceva tante promesse in cambio di un dono, che viaggiava a cavallo di una scopa, che aveva un sacco pieno di giocattoli, che scendeva dal camino, che prendeva dal mio guanciale i biglietti che le scrivevo, che mi vedeva qualunque cosa io facessi, quella vecchia, della cui esistenza non potevo dubitare perché l’avevano vista tutti, mio padre, mia madre, i genitori delle mie amiche, le amiche dei miei genitori, quella vecchia era il mio tormento.
Mi affascinava ma ne avevo paura, l’amavo eppure l’odiavo. L’odiavo perché non si faceva vedere da me che pure la cercavo e mi chiedevo come mai non avesse una casa come tutti gli altri. Non facevo che inseguirla, soprattutto nei giorni in cui ero costretta a letto con la febbre e la penombra e il silenzio della stanza diventavano miei complici in quella ricerca. Fu così che durante le febbri del morbillo scoprìi il suo domicilio nell’angolo del soffitto, in alto. Quando ebbi gli orecchioni la vidi venir fuori, rientrare e ancora venir fuori, incerta se scendere giù per le scale che andavano disegnandosi lungo la parete. Quelle scale però si fermavano a mezz’aria senza mai giungere a toccare il pavimento della stanza. Durante le febbri di crescenza cominciò a scendere i primi gradini e vidi le pieghe del suo vestito… le braccia… la testa… ma il viso... Il viso non lo vidi mai, neppure quando ebbi la varicella.
Un giorno, in cui ero a letto sempre con la febbre per non so che cosa, uscì dalla porta in alto con la sua scopa di saggina, come quella che avevamo anche noi a casa. Fu per me una sorpresa… Allora era vero!!!... Non avevo mai creduto fino in fondo che potesse volare su una scopa. Per me, fino ad allora, quella della scopa era stata una trovata buffa di cui ridevo divertita … quel giorno però non risi… era vera anche la scopa… Ma, se la befana era vera, perché non mi parlava? Forse avrei dovuto parlarle io… ma io non le parlavo … non le parlavo per paura … paura di non so che cosa. La guardavo arroccata nelle mie coperte. Anche lei mi guardava… Lo intuivo dall’atteggiarsi del suo corpo tutto rivolto verso di me.
Un giorno riprese a scendere i gradini lentamente, cautamente, decisamente. Mi sentii mozzare il respiro… Giunta all’ultimo gradino, oltre il quale si apriva il vuoto tra lei e il pavimento, si sedette e rimase lì, rivolta verso di me. Ci scrutammo senza guardarci, lei immobile, io immobile, temendo e desiderando che qualcosa accadesse. Ma non accadde nulla. Da allora, tutte le volte usciva, scendeva, anche quando non avevo più febbre, e si fermava lì, come trattenuta dai brividi che mi percorrevano.
Sebbene continuasse a tenermi nascosto il viso, cominciò a diventarmi cara. Avevo ancora paura ma non mi era più estranea… Era venuta fuori dal suo mistero per me e, da buona amica, non tentò mai il salto nel vuoto per avvicinarsi al mio letto, non montò mai in groppa alla sua scopa per venire da me. Cominciai a volerle bene. I brividi di paura scomparvero e a volte mi addormentavo tranquilla sotto il suo sguardo vigile e silenzioso. Ero diventata anch’io una sua fan e la difendevo come non avrei mai difeso la mia migliore amica. Fu quello l’ultimo ricordo della mia befana.
Un giorno di dicembre, mentre esploravo, all’insaputa di mia madre, negli angoli più reconditi dei cassetti alla scoperta di non so che cosa, trovai, nascosto tra le pieghe della biancheria un foglietto. Lo aprii… Cominciava così… Cara befana… Era la mia letterina, quella che le avevo scritto io… Avvertii il dolore di un sogno in frantumi… Piegai la testa smarrita e piansi, piansi la perdita di una compagna senza volto, di un’amica silenziosa, docile e buona …
Avevo sette anni e già ingoiavo l’amaro di un sogno in frantumi.

Il nostro terzo stipendio

L’idea del terzo stipendio, quello del risparmio, risale agli anni ’50, il tempo della mia fanciullezza, quando, per consiglio di un agente dell’INA CASA, i miei genitori accettarono una strana e allettante proposta di risparmio. Una proposta che, senza imposizioni, senza scadenze fisse e senza sacrifici e rinunce, ci avrebbe consentito di mettere da parte una somma “importante” per realizzare qualcosa di importante per la famiglia. L’agente ci avrebbe consegnato un salvadanaio e noi tutti di famiglia avremmo dovuto versarci monetine a piacere, quelle ricevute di resto, quelle risparmiate alle voglie del momento e quelle espressamente destinate al risparmio. Lui sarebbe passato periodicamente a svuotare il salvadanaio e a depositare la somma sul conto a noi intestato. Nel convincerci non smetteva di ripetere che con quel sistema ci saremmo trovati una buona sommetta da investire per spese sicuramente importanti e utili per tutta la famiglia.
Il salvadanaio aveva una forma a noi molto cara e familiare, la forma di una casa simile a quelle che allora si immaginavano nelle favole, piccola e graziosa, dai colori vivaci proprio come i sogni che avrebbe custodito. In casa le fu assegnato un posto d’onore, sicuro e lontano da occhi indiscreti: sul comò della camera da letto dei miei genitori. Questo contribuì a renderci più orgogliosi e complici nel nostro progetto. Per la prima volta fummo autorizzati ad entrare in quella camera senza chiedere di volta in volta il permesso. Entravamo da padroni come non mai, versavamo le monetine nel salvadanaio e, visto che ci trovavamo, eccitati dai brividi della trasgressione, facevamo anche quattro salti sul lettone.
Con questo sistema era proprio un piacere riempire quel salvadanaio a forma di casetta.  Ogni tanto lo scuotevamo per capire quante ancora ne mancavano di monetine e quel tintinnare per noi era sempre motivo di gioia. Se sapeva di vuoto voleva dire che tanti ancora sarebbero stati i nostri salti sul lettone, se era pieno voleva dire che la somma in deposito sarebbe aumentata. Periodicamente veniva l’agente a svuotarlo e ad ogni svuotata ricominciava per noi la gara gioiosa del risparmio, dell’accumulo e della trasgressione sul lettone.
Intanto papà e mamma, a volte, durante il riposo dalle fatiche, facevano progetti su cosa comprare quando si fosse raggiunta la somma sperata. Ringraziando dio, era la prima volta, dopo la guerra, che riassaporavano il piacere di una somma da parte su cui fare progetti. Erano soddisfatti. Lo eravamo anche noi bambini che ci sentivamo coinvolti e potevamo gioire delle nostre piccole rinunce per un progetto più grande da realizzare insieme a loro.
Il messo dell’INA veniva, svuotava la cassetta, compilava un foglio, se ne andava, poi ritornava. Passò il tempo e con il tempo passarono gli anni. Senza che ce ne accorgessimo il lettone, piano piano, ritrovò la sua pace. La casettina rimase ancora lì, sul comò, ad aspettarci e gli incontri, diventati più radi, un giorno finirono.
Non ricordo quando e non ricordo neppure quando fu ritirata l’ultima somma in deposito. Risucchiata dalla vita, rimossi tutto, anche la casettina, ma non la propensione al risparmio. Negli anni e nei fatti quel risparmiare si era dilatato a tal punto da comprendere altre pratiche, quali la ponderazione nelle spese, l’oculatezza nei progetti, la prudenza e il discernimento nelle decisioni, fino ad accorgimenti più banali quali evitare lo spreco di cibi avanzati e riutilizzare ciò che ancora poteva essere utilizzato, dai vestiti alle pagine intonse dei quaderni. Non era taccagneria. Era semplicemente un’avversione allo spreco. Pratica che non ci ha mai impedito, né mi ha mai impedito di aiutare chi ne ha bisogno.
Da sposata lo chiamavo e lo chiamo ancora terzo stipendio. - Questo lo faremo - oppure - questo lo abbiamo fatto con il terzo stipendio – dicevo. Terzo dopo il mio e quello di Luigi, mio marito. A volte si è nutrito anche di rinunce ma, visti i risultati, non solo non mi sono mai pentita di averle fatte quelle rinunce, ma addirittura me ne faccio ancora un vanto. Quel terzo stipendio ci ha permesso e ci permette ancora di realizzare il superfluo. Il mio e quello di Luigi ci serviva e ci è servito a mandare avanti i figli, la famiglia e la casa. Il terzo, quello del risparmio, ci è servito per quel superfluo di cui ci vantiamo e che, se per qualcuno potrebbe essere poco, per noi, invece, è il molto e il troppo dopo il necessario.

Angoscia della morte

Accanto alla gioia cominciò a delinearsi anche l’altro polo della mia esistenza: l’angoscia, angoscia della morte, più inquietante di quello della vita, perché la vita almeno la vivevo ma la morte mi era del tutto estranea. Il suo pensiero mi arrovellava non di giorno, quando la luce del sole illuminava tutto intorno la mia casa, la campagna, la mia stanza, il volto dei miei cari. Si insinuava subdolo la notte, quando si spegneva l’ultima luce e il silenzio pareva inghiottire tutto.
Allora, rannicchiata sotto le coltri, mi sentivo piombare come in una voragine senza fondo, lentamente, inesorabilmente e nel petto lo smarrimento lievitava fino a stringermi la gola. Mi prendeva l’angoscia del vuoto, del nulla, giù giù, in fondo alla voragine in cui precipitavo lentamente, molto lentamente come un corpo senza peso. Mi figuravo massi informi in una luce terrigna…Quello doveva essere il prima dopo il nulla, pensavo.
Ma come si era passati dal nulla al prima? L’angoscia mi devastava l’anima. Il nulla e la morte, l’inizio e la fine e, tra l’uno e l’altro, la vita, io, mio padre, mia madre… Al solo pensiero che mio padre e mia madre sarebbero scomparsi mi angosciava più della mia stessa morte. Una ribellione selvaggia contro la vita che mi nascondeva il suo mistero mi prendeva e la vita e la morte per me diventavano la stessa cosa. La vita, la morte, il nulla … Io, mio padre e mia madre eravamo quei massi informi in fondo all’abisso senza alcuna ragione al nostro esistere.
Nelle mie elucubrazioni ogni notte disperatamente speravo che in quell’ abisso senza fondo si aprisse uno spiraglio di luce a portare speranza alla mia angoscia. In quello smarrimento mi aggrappavo all’idea di dio … E se veramente la vita ha inizio da Dio e finisce in Dio?... Se tutto ha inizio dalla luce e finisce nella luce?... La luce… Dio… E prima?... Non c’è forse qualcos’altro prima di loro? … E prima di questo qualcos’altro?
L’angoscia tornava a stringermi nella sua morsa. Nella mia mente l’immagine di un dio a cui volevo disperatamente credere, alla cui esistenza mi aggrappavo come a un’ancora di salvezza, andava sovrapponendosi a quei massi informi e si identificava con quell’abisso immobile. Toccavo allora il culmine dell’angoscia. Mi sentivo indifesa e sola nella voragine di quel mistero. Invocavo allora il sonno senza il quale mi sembrava impossibile acquetarmi.
Al mattino i miei occhi si aprivano su un fascio di luce che irrompeva dalla finestra socchiusa. Una gioia incontenibile mi invadeva. Quel sole, quella luce erano reali … una realtà che nessuna elucubrazione, nessun sofisma mai avrebbe potuto mettere in dubbio. Quel sole non potevo toccarlo ma lo vedevo … mi illuminava, mi scaldava, mi rivelava le cose intorno e io, mio padre, mia madre, in quella luce, eravamo presenze vive, con una ragione alla nostra esistenza: amarci, come il sole, in un unico abbraccio.
E pensavo: la luce è sole, il sole è calore, il calore è amore, l’amore è dio, dio è luce, dio è vita, la vita comincia dall’amore e finisce nell’amore così come il giorno era cominciato con il sole e sarebbe finito non con le tenebre della notte ma con la luce del nuovo giorno.

Padre

E tu, padre mio, m’insegnasti anche la morte.
Corsi annientata dalla disperazione e dal peso della mia carne, mi piegai accanto al tuo letto. Eri freddo, eri immobile, eri crudelmente sereno. T’invocai a voce bassa spaventata da quella tua incredibile, disumana immobilità. Eri sereno e non mi sorridesti. Un’angoscia pesante, atroce, mi strinse in petto. Mi sentìi sola, sgomenta, sperduta accanto al tuo corpo vigoroso e muto. - Papà…papà…papà… - gemevo e mi riempivo il cuore del tuo nome e mi straziavo l’anima… Non ti avrei più chiamato… non mi avresti più chiamata…
Eri forte…eri grande… Eri il nostro sostegno. Accanto a te mi sentivo forte, sicura, solida come il virgulto sul tronco…in un’unica esistenza…Mi lasciasti in un solo attimo… ci lasciasti in un solo attimo. Eri immobile e non sollevasti le palpebre a guardare me, tua figlia. Era in me che ti vantavi di aver lasciato più nette le impronte del tuo essere e tu eri quello che io avrei voluto essere. Sedevi a capotavola severo e orgoglioso di vederti ricco di tanta prole e ci ammonivi : - la tavola è un altare…non si parla, non si sta scomposti, non si fa rumore di piatti e di posate, non si schiocca la lingua…Il pane!...Avete messo il pane a tavola?...Non deve mai mancare… come l’ostia sull’altare…Il pane è il frutto del sudore della fronte…fatevi il segno della croce…- e noi piccoli, chini sui nostri piatti, strabuzzavamo gli occhi sotto un moto di impazienza mal repressa e ben volentieri avremmo sbuffato : - Uffà, papà… ma è possibile che tu debba ripetere sempre le stesse cose…non vedi come ci scocci?...- E poi, alla fine dei grandi pranzi, amavi indugiare a tavola e ci raccontavi di quando eri alpino, delle tante avventure strabilianti che ti avevano visto protagonista ed eroe. Ci raccontavi della guerra, delle volte in cui eri miracolosamente sfuggito alla morte, del benessere in cui eri riuscito a mantenere la tua famiglia anche in tempo di fame… e poi tanti e tanti episodi che noi credevamo di aver imparato a memoria per averli sentiti tante volte e tante, ma ora cosa non darei perché tu, papà, possa tornare a raccontarmeli!... Sì, padre, ora ho scoperto col pianto nel cuore che sono tante le cose che non ricordo e sento in me cocente il rammarico per non averti ascoltato abbastanza.
Passeggiavi su e giù per la stanza con le mani dietro la schiena e a volte fischiettavi soddisfatto…di che…di chi?... Dei tuoi figli, dei tuoi sacrifici per noi… sacrifici che non ti sembravano mai abbastanza… Giustificavi la tua severità con una immagine che mi faceva sorridere per la sua ingenuità. – La famiglia è come un orto… va curata giorno dopo giorno e i ramoscelli vanno raddrizzati in tempo…-
Padre, ora che sono madre anch’io, ora che tu mi hai lasciata ho scoperto tra mille difficoltà quanto è vera quella immagine e quanto inutilmente anch’io la vado ripetendo ai miei figli!...

Natale nella gioia e nel dolore

L’aver scelto e segnato un giorno dell’anno come Dies Natalis è stato il disegno più bello e più grande che mente umana abbia potuto partorire. Ci avvolge e coinvolge tutti nel suo magico incanto. Un disegno che, a volo di rondine, al di là dei limiti, al di là delle finalità e delle modalità diverse per cui e con cui lo si attende, riesce a coinvolgere il credente e il non credente nella stessa magia, quella delle relazioni, delle amicizie che si rinsaldano, degli affetti che si riaccendono, quella del tutto buono che si condivide. Le case si animano di presenze che tornano a vivere con noi e tra noi.
Ti accorgi allora, nella nostalgia e nel rimpianto, che il cuore non conosce la caducità del tempo. Ti guardi intorno e percepisci qualcosa che ti fa riflettere. Nel trambusto insolito e frenetico, nelle voci e nei silenzi, l’uomo grida la sua voglia di amare e di essere amato. Ti chiedi allora se c’è al mondo qualcuno che non voglia essere amato e non voglia amare, domanda la cui risposta ti riporta ad altre domande sull’amore e sulla felicità. L’ empito ad amare e ad essere amati è radicato in tutti. L’amore è sempre e dovunque, in tutti e al di sopra di tutti, così pure la tensione verso la felicità.
Purtroppo, nella ricerca spasmodica dell’uno e dell’altra, ci perdiamo in mille rivoli che ci allontanano dalla sorgente unica e vera. E Lui è venuto a darci una mano, per riportarci al senso vero dell’amore perduto.  È venuto a guidarci col suo vincastro: Io sono la via, la verità, la vita. A esortarci: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. È venuto ad amarci fino all’olocausto, fino alla morte per la vita. Sì, perché il suo amore non è una pulsione emotiva, circoscritta nella sfera dei sentimenti, il suo amore è azione, è donazione di se stesso.
Nell’umiltà e nella povertà di tutti i beni terreni, piccolo tra i piccoli, gigante solo nell’amore, torna a prenderci per mano. Ricordiamocelo, soprattutto nei giorni in cui il consumismo e le convenienze mondane insidiano e deformano il senso e l’essenza stessa della vita. Lui non si è donato per dovere o per convenienza. Il suo non è un prestito, ma un dono senza condizioni. Certo pochi eletti sono stati e sono capaci di tanto, ma anche una parola, un bacio, una carezza possono essere un dono inestimabile, un dono che ti conforta, ti riscalda e ti dà vita. Inaspettatamente lo ricevetti io tanti anni addietro, un dono che, nel dolore, mi ha dato e mi dà, ancora oggi, la forza di andare avanti confortata dall’amore.
Accadde tanti anni fa. In quei giorni la casa, un tempo piena di lei, della sua voce, del suo canto, dei suoi sorrisi, degli aromi del suo cucinato, in quei giorni la casa era sepolta nel silenzio e nella paura di un’attesa a cui non ero e non sarei mai stata preparata. Lei, mia madre, a letto, colpita da un insulto cerebrale, non parlava, non si muoveva, non dava più alcun segno di vita ma respirava. Se respira - mi dicevo - è viva e in questa certezza cercavo conforto. Spesso mi sedevo accanto al suo letto e le parlavo. Le parlavo del mio lavoro a scuola, dei suoi nipotini, della quotidianità, così come ero solita fare quando lei sfaccendava tra i fornelli.
Quella Vigilia di Natale eravamo sole. Lei nel suo abbandono, io nell’angoscia del mio dolore. Cosa non avrei dato per un suo bacio, una sua carezza! Mi sentivo povera e indifesa proprio come quando, da bambina, la cercavo. Piegai il capo sul suo petto e piansi. Non so per quanto ma ricordo, ogni volta e sempre, con la stessa intensità e commozione di allora, quello che accadde. Sentii la sua mano tra i miei capelli e la sua voce biascicare le note disarticolate di un’antica canzone, quella che mi cantava per asciugarmi le lacrime, quand’ero bambina.
Povera di tutto, più inerme e sola di me, mi faceva, ancora una volta, il dono inestimabile del suo amore. Non so se lo avesse fatto coscientemente ma lo aveva fatto. Fu, per me, il suo ultimo dono, il più bello, il più grande che io abbia mai ricevuto. Quello che ancora oggi mi unisce a lei, mi conforta e mi fa dire, in piena consapevolezza, che l’amore è l’unica e vera essenza della vita, è l’unico che non conosce la caducità del tempo, che è sempre e dovunque, in tutti e al di sopra di tutti. 

Giornate interminabili

Le giornate le sembravano interminabili. Non avrebbe mai creduto di poter disporre di tanto tempo libero quando i suoi due figli erano ancora in casa e le davano tanto da fare con i loro problemi e il loro disordine. Allora avrebbe dato chi sa cosa per avere un po’ di tempo tutto per sé. Suo marito continuava con i ritmi di sempre, anzi con il ritmo di sempre, immutato da anni ... Sempre quello, sempre lo stesso…Il copione di una giornata sempre uguale a se stessa, con la pioggia e con il sole…Lavoro, casa e lettura, nella sua poltrona, nel suo studio…Pareva che si fossero detto tutto, proprio tutto, che non avessero nient’ altro da dirsi.
Dopo tanti anni la vita scorreva con la precisione e la regolarità di un programmatore. Fin troppa calma era caduta su quella casa in cui si erano spenti persino gli echi del vociare dei suoi ragazzi, quegli echi che lei aveva tenuto caparbiamente vivi per sentirseli ancora vicini, per tenerli ancora con sé nella sua solitudine… Sua madre le diceva – i figli si allevano per gli altri – e lei lo aveva sperimentato sulla sua pelle e si era arresa a fatica a quella realtà per tanto tempo ignorata e poi scongiurata.
Da quando i suoi ragazzi avevano messo su famiglia, lei si sentiva inutile e sola. Ognuno procedeva per la sua strada... i figli, il marito... ma lei no… lei non voleva e non sapeva rassegnarsi a procedere da sola per la sua strada. Il tempo aveva placato ma non distrutto in lei il desiderio di evasione da quella realtà che la faceva vegetare ma non vivere. Quanto avrebbe dato per rivivere le ansie e le palpitazioni di un tempo! Allora erano tutti una sola anima e nessuno di loro avrebbe mai sospettato di fare a meno degli altri.
Allora i piccoli le chiedevano – mamma, non è vero che non morirai mai? - e lei, sorridendo, li rassicurava che non li avrebbe mai lasciati, che sarebbe vissuta a lungo, tanto a lungo … fino a quando fossero diventati grandi… anzi più grandi del papà. E loro, rinfrancati, sorridevano, convinti che un’eternità li avrebbe separati da quel fino a quando.
Il tempo era passato. Con la ragione cercava di farsi capace del distacco ma con il cuore si ribellava. Aveva dato tanto ma avrebbe potuto dare ancora tanto. I capelli le erano diventati bianchi ma lei non aveva avuto il tempo di accorgersene. Aveva avuto sempre tanto da fare a casa e sul lavoro … aveva differito ad altro momento ogni sua vanità e ogni suo desiderio - tanto - si diceva - per quando saranno cresciuti avrò tanto tempo per me –. I ragazzi erano cresciuti, si erano sposati e ora, lei, di tutto quel tempo libero non sapeva più che farsene. Si era ritrovata con i capelli bianchi e per amica una solitudine spaventosa. Nell’ingranaggio della sua vita qualcosa era saltato… qualcuno le aveva strappato il cuore. Era quello il tempo in cui avrebbe dovuto godersi la vita eppure i momenti più belli erano dietro le sue spalle, sepolti nel passato…
Dinanzi allo specchio impietoso si perse in quel muto soliloquio … No… quell’immagine canuta e sfiorita non poteva essere il riflesso di se stessa… lei era sempre quella dei venti anni… Lei aveva ancora tanta voglia di amare, sognare, vivere come a vent’ anni… Quella lì nello specchio non era che uno scherzo perfido… quella donna le rassomigliava solo nello smarrimento e nella solitudine… ma non era lei… Poteva essere sua madre…sì…sua madre … Lo stesso sguardo… la stessa canizie… le stesse spalle appesantite dagli anni. …Forse era proprio lei, sua madre, tornata a darle coraggio… Sentì prepotente il desiderio del suo conforto… tese le braccia... Contro la superficie fredda dello specchio sentì frantumarsi la sua anima affranta … I suoi occhi smarriti si persero negli occhi colmi di lacrime di quella cara immagine che svaniva nel nulla.