Prosa
Società

Gente di Puglia

Era un vecchietto di statura media, smilzo, vestito col decoro d’altri tempi: un cappotto di panno pesante, pantaloni e giacca nera, una camicia a quadretti fermata al collo da una cravatta che doveva avere la tonalità di tutto l’insieme dal momento che ne ricordo la presenza ma non il colore. Il viso era asciutto. La pelle, stirata e lucida, sulle gote si tingeva di un rosso casereccio e sincero. Aveva novant’anni e gli occhietti, vispi e maliziosi, che brillavano nell’incavo delle orbite, testimoniavano da soli una lucidità di mente e una padronanza di sé insolita in uomini di quella età. Mi venne incontro con quel sussiego che solo la buona educazione di una volta sapeva tributare alle donne. Camminava lento, guidato dalla mano amorevole di un congiunto, pronto a tendermi la mano con un sorriso appena abbozzato.
Gli sorrisi e gli tesi la mano.
Una corrente di simpatia corse tra noi due: ci divideva mezzo secolo, ma era come se io fossi la sua naturale continuazione.
Gli volli subito quel bene che avevo voluto a mio padre e che spesso mi capita di volere a questo o a quell’anziano in cui mi pare di ravvisare un qualcosa del mio genitore. Lui, di mio padre, aveva l’aria contegnosa, i modi controllati, il comportamento rispettoso; lui, di mio padre, aveva quella dignità d’altri tempi che, sola, infonde un senso di serenità e di pace in chi le è dinanzi.
Sedemmo l’uno accanto all’altra.
Non mi sembrava particolarmente impacciato, anzi. Quella sicurezza dignitosa non lo abbandonò per tutto il tempo del nostro incontro. Solo quando alla fine gli dissi, rispondendo alla sua richiesta, che mio marito era medico, si coprì di un tale riserbo che mi mise in imbarazzo.
Il nostro incontro era avvenuto grazie all’interessamento di una famiglia amica che, in questa disponibilità, aveva rivelato la sensibilità, l’umanità e l’apertura sociale di cui era ricca. Non sono molti, al giorno d’oggi, coloro che, nel ritmo serrato della vita quotidiana, riescono a trovare spazio per favorire la richiesta un po’ inconsueta e stramba quale era stata la mia: organizzarmi l’incontro con un anziano per una intervista sui tempi andati. Mi avevano già parlato di lui. Viveva da solo in una campagna lontana dal paese, nella casa in cui sua moglie aveva messo al mondo una prole numerosa ormai sparsa per il mondo. Non aveva mai ceduto alle continue e pressanti richieste dei figli di andare a vivere con loro e, quando uno di loro gli portò in dono un televisore, lo rifiutò seccamente scoraggiando ogni tentativo di insistenza.
Di tutti i mass-media gradiva solo il giornale.
Avviai il registratore e cominciai a scavare nel suo passato.
Mi disse che si chiamava Rocco e che era nato nel 1893.
Avevo dinanzi a me la testimonianza viva di un’epoca che affondava le sue radici nell’ultimo decennio del secolo scorso!
Cominciò a delinearmi un quadro, breve ma incisivo, della sua famiglia di origine. Con poche battute tratteggiò la figura del padre severo, dinanzi a cui si chiudeva in rispettoso silenzio l’intera figliolanza. Bastava l’accenno al suo nome, fatto dalla madre nei momenti di disperazione, per riportare l’ordine e l’obbedienza in casa. I suoi vivevano del lavoro dei campi e al lavoro dei campi avviarono tutti i figli.
Anche lui, Rocco, a sei anni, come i fratelli, venne portato dalla madre a raccogliere le olive per conto di altri. Vigilava su tutti il fattore che, girando di albero in albero, controllava il lavoro delle raccoglitrici e dei loro figli.
La madre, per nascondere a quegli occhi vigili e sospettosi il secchio mezzo vuoto del figlio, e per alleviare la fatica del piccolino, ogni tanto, furtivamente, vi gettava qualche manciata delle sue. Così, chini sotto l’albero, avvolti dal gelo, madre e figlio, legati da quella mutua complicità e dalle necessità della miseria, vivevano il rapporto d’amore più intimo e più bello.
Ai primi anni del ’900 Rocco si iscrisse alle elementari, ma, fino a marzo, non poteva frequentare che saltuariamente.La mattina presto, quando ancora era tutto buio, madre e figlio si avviavano per i campi a raccogliere le olive. Ritornava a scuola quando pioveva. Allora la maestra (di cui Rocco conservava un ricordo sacro e nostalgico come quello del primo amore), benevola complice, gli si metteva a fianco a fargli recuperare amorevolmente il tempo impiegato nel duro lavoro.
Non lo portava mai assente così che, ogni anno, fino alla terza (ed era già tanto per quei tempi!) gli fu possibile essere promosso. Le sorelle vennero avviate al lavoro del telaio perché non stessero senza far niente e si guadagnassero la vita anche quando non c’erano più le olive da raccogliere.
Quello della raccolta dei frutti stagionali era il lavoro dei campi più leggero, riservato alle donne e ai bambini. Nelle giornate gelide in cui lui e la madre si trovavano chini a raccogliere, passava ogni tanto, di albero in albero, portato da altri bambini più fortunati di lui, perché maneggiavano il fuoco, un secchio con della brace, al cui calore grandi e piccoli, a turno, si riscaldavano le mani intirizzite per rendere meno faticosa e più celere la raccolta.
Quando il fuoco arrivava sotto il suo albero, anche lui, Rocco, allungava le manine sporche e screpolate per averne sollievo e, quando glielo portavano via perché bisognava recarlo altrove, le mani, prima di quanto temesse, gli si raffreddavano e il gelo rientrava nelle piccole ossa. Quanto più passavano i giorni tanto più il lavoro diventava pesante, e lui, che agli inizi si era sentito orgoglioso della sua mansione di adulto, cominciava ad avvertirne sempre più il peso.
Gli unici momenti di sollievo erano quelli in cui allungava le manine sulla brace del secchio e quello in cui, seduto sotto un albero d’ulivo, protetto dal freddo di tramontana dal corpo della madre, consumava la sua colazione fatta di pane e fichi secchi.
A volte non portava neppure il pane, perché quel poco che era rimasto a casa serviva per mangiarlo assieme alle fave, la sera, appena tornati tutti dal lavoro.
A novant’anni Rocco parlava con orgoglio di quella miseria, di quelle fatiche che lo avevano reso uomo e gli avevano garantito sanità fisica e morale.
A ventun’ anni fu chiamato militare e, prima che scadessero i due anni di leva, partì in guerra. Combatté nel Veneto contro gli austriaci e fu ferito. Ripartì e fu fatto prigioniero. Stette in vari campi di concentramento dove soffrì più che mai la fame. Rientrò a casa nel 1919, dopo sei anni di assenza. Vi arrivò senza stellette e senza fanfara, ma con un gran desiderio addosso di tornare a lavorare nei campi. Rocco continuava a rievocare, intimamente sereno e con velata nostalgia, i fatti della sua vita adulta, ma la mia mente era tornata lì, all’immagine della madre muta e severa che gli passava furtiva una manciata di olive, alla madre che lo proteggeva col suo corpo dal soffio del vento gelido, alla maestra, complice benevola, a quel fuoco che, portato di albero in albero, solo, procurava, fra tanta miseria e disagio, brividi di piacere mai provato.
Quanto ricco di amore e di abnegazione mi parve quel mondo tanto lontano da noi!

Correvano gli Anni '60

Verso l’ultima stazioneViaggiava da oltre venti ore.Veniva da Zurigo.Lo scompartimento pareva troppo stretto per lui. Sembrava non contenerlo.Incurante di tutti si agitava, si alzava, andava nel corridoio a fumare due boccate e poi spegneva, si faceva strada per l’ennesima volta tra il groviglio di gambe già faticosamente raccolte e ritornava a sedere accanto al finestrino.
Di fronte a lui muto un uomo dal volto un po’ strano, gli occhi enormi nel viso scarno.Doveva essere un suo compaesano e compagno di sorte, lo arguii dal modo confidenziale con cui l’altro gli offriva le sigarette e gli rivolgeva la parola che non chiedeva risposta.
Entrambi avevano la stessa pelle dura, gli stessi segni di una terra amara.
Tornava a guardare l’orologio.
Quella turbolenza mi procurava un notevole fastidio e un viscerale senso di rigetto per quel modo di fare così privo di qualsiasi garbo, tanto più che gli sedevo accanto,gomito a gomito. Quasi mi pentivo d’essere salita su quel treno speciale, stracolmo di emigranti, l’unico ad avere un posto libero, quello occupato da me, e tanta gente stipata nei corridoi e solo per arrivare qualche minuto prima a casa.
Mancavano due giorni al Natale.
Pensai con invidia ai viaggiatori di prima classe,composti e indisturbati.
Nello scompartimento, insaccato fino all’inverosimile di bagagli dalle fogge più strane, viaggiavamo, triste spettacolo di una umanità di seconda classe, stretti spalla a spalla, senza spazio sufficiente neppure per i nostri piedi.
L’aria,calda e pesante, dall’acre odore di umano,era ai limiti del respirabile.
-Fra due ore arriviamo- esclamò ad alta voce come per acquetare la smania tra l’indifferenza e il silenzio di tutti. Il compagno, quello di fronte dal viso scarno,c ontinuava a guardare fuori dal finestrino gli orti squadrati con cura minuziosa e caparbia. Gli occhi, l’anima, tutto di lui sembrava galvanizzato da quella terra composta e serena.
- Appena arrivo mi faccio preparare un bel piatto di rape - Era sempre lui che parlava, inquieto, come volesse questa volta farsi strada tra i pensieri del compagno muto - Mamma lo sa, quando vengo me le fa anche la mattina a colazione - e sembrò aspirare dal ricordo l’odore caldo della minestra. Gli occhi gli brillavano di un desiderio non contenuto.
Si agitò.Si alzò e,vacillando in quello spazio troppo angusto,riuscì a tirar fuori qualcosa dalla tasca della valigia. Sentii crocchiare. Alzai lo sguardo incuriosita.
Aveva in mano una busta e si accingeva a rimettersi a sedere. Era una busta di caramelle. Quella leccornia in quelle mani ruvide e callose, avvezze a tutt’altro e scolpite dal tempo ingrato, segnò ai miei occhi un contrasto inconciliabile e stridente
- Signorì, pigliate, sono alla menta. Sono buone, sono di Zurigo - e, prima che io potessi aprire bocca, me ne rovesciò qualcuna in grembo con un gesto rude ma con un trasporto istintivo e disarmante che neppure osai accennare un rifiuto. Da me a tutti gli altri.Il pacchettino di caramelle,accompagnato dalla pressante insistenza del proprietario, fece il giro dello scompartimento. Qualcosa cominciò a sciogliersi nell’aria.
- Da Zurigo venite? - gli chiese una donna di mezza età, di fronte a noi, piuttosto grassa, con accanto un giovanottone dal volto ebete e assente -Anch’io sono stata all’estero. In Germania -
La freschezza intensa della menta mi diede una sensazione di benessere. Mi sentii più rilassata e più ben disposta verso il mio vicino e i miei compagni di viaggio. In fondo quella gente poteva anche riuscirmi simpatica.
- Si sta bene all’estero? - aggiunse l’altra vecchietta accanto con un tono trepido e ansioso di chi aspetta una risposta ad un sogno accarezzato da sempre. Sembrava ancora più stretta nel suo cappotto di panno scuro.
- Dove si lavora e si mangia si sta sempre bene - rispose il padrone delle caramelle ostentando saggezza.
- Si guadagna assai? - replicò la vecchietta con la stessa trepidazione di prima, quasi a volere una conferma alle meraviglie del suo sogno nascosto.
- A guadagnare si guadagna ma è l’alloggio e il mangiare che costano. Da trent’anni sto a Zurigo e lavoro quando piove e c’è neve. Faccio il muratore e guadagno ma come si guadagna si spende. Sta meglio chi tiene moglie. Risparmi sul mangiare e metti soldi da parte -
Queste ultime parole parvero rinfocolare nelle due donne sogni e speranze mai sopiti.
- Quando stavo in Germania con mio figlio e faticava anche lui ne facevo di soldi - confidò la donna di mezza età sotto l’empito dei ricordi, con nostalgia nella voce, poi, dopo una pausa che mi parve pregna di un tormento infinito, aggiunse decisa-Ma, non appena avrò fatto i soldi per un biglietto,ci ritorno, sì, ci ritorno-
- Perché allora ve ne siete venuta? - le chiese quasi irritato un tipo dall’aria sazia, grosso e grasso che, straripando dal suo spazio, spingeva il vicino occhialuto a schiacciarsi contro la mia spalla.
- Già, perché? - balbettò quest’ultimo come scuotendosi dal torpore.
Seguì un silenzio greve come di un dolore faticoso a ricordare o di un fallimento che si ha vergogna ad ammettere. Poi, quasi chiamando a raccolta tutte le forze, strascicò: - per lui, per mio figlio -
Sembrò pesarle quanto il mondo e con lo sguardo indicò il ragazzone che guardava nel vuoto con l’aria ebete e assente.
Si sentì lo sgranocchiare di una caramella.
- Per vostro figlio?! - chiese la vecchietta sporgendosi a scrutare quel relitto silenzioso e la sua voce mi parve incrinata dalla paura di un disinganno.
Quel pacchettino di caramelle, dolce e subdolo galeotto, cominciava a sciogliere l’ultimo riserbo,a mettere a nudo i cuori, svelandone le ansie e le pene più riposte.
Cominciavo a sentirmi parte di quella umanità.
Non ero più a disagio tra quella gente così diversa da me e tanto lontana dal mio mondo - L’ho tenuto tanto tempo in ospedale. E’stato grave per morire -
Si interruppe, poi ,quasi leggendo nel silenzio la domanda di tutti e palpando la curiosità sospesa nell’aria o semplicemente perché spinta dal bisogno di condividere con altri il suo dramma, riprese:
-in Germania stava lavorando come voi al muratore. L’impalcatura era alta, molto alta. Si spezzò una trave. Non era assicurato-
A frammenti ci raccontò di quanto aveva fatto per quel figliolo, del suo pellegrinare da un ospedale all’altro della Germania che erano meglio di quelli italiani. I soldi risparmiati se n’erano andati tutti fino all’ultimo centesimo. Che almeno fosse tornato normale! Senza più una lira, senza più un figlio capace di lavorare, vedova, se n’era tornata in Italia da sua madre che aveva una pensione.
-Da due mesi è morta. Io e mio figlio non abbiamo più niente, senza pensione manco più gli occhi per piangere ma, non appena avrò fatto i soldi per il viaggio, giuro, giuro che me ne torno in Germania. In Germania guadagnavo e mangiavo - e con questa certezza sembrò inseguire il sogno dei sogni, quello della sopravvivenza così prepotente e primario da offuscare il volto di ogni altra tragedia.
Il treno correva veloce sulle rotaie. A destra e a sinistra tra gli alberi d’olivo cominciavano a diradare gli orti.Tra noi era calato un certo imbarazzo. Il grassone dall’aria sazia sembrava sonnecchiare.Forse aveva sonnecchiato per tutto il racconto. - Solo perché si lavora e si guadagna - commentò il mio vicino non più turbolento - per il resto si sta meglio in Italia -
Il treno rullava sulle rotaie.
- In Svizzera guadagno -
Le sue parole cadevano tra noi, persi ciascuno nei propri pensieri.
- Mi costruii una casa al paese e ci misi mio padre e mia madre - Tacque per un attimo, quasi a darci il tempo di godere assieme a lui il piacere di quel ricordo, poi lui, il mio vicino dalle caramelle alla menta, di quelle buone di Zurigo, continuò con voce inaspettatamente sommessa e stanca il racconto di un dolore ancora vivo.
- Sposai una svizzera. Mi lasciò, chiese il divorzio. Ora non ho più né casa né figli. Il tribunale li ha affidati tutti e due a lei. Me li ha tolti. Là così vanno le cose -
Nella sua voce mi parve di cogliere il dolore e l’angoscia di chi vive in una terra che non è la sua, lontano dalle sue radici, dal suo focolare.
- Ho venduto la casa per pagare le spese e per mantenerli. Li dovevo mantenere io i figli e anche lei. Il tribunale ha voluto così -
Respirava a fatica quasi avesse corso senza sosta verso un traguardo lontano quanto un sogno.
- Quando farò i soldi per un’altra casa me ne torno al paese, da mamma. Tiene ottant’anni mamma mia. Le farò un’altra casa con un pezzo di terra. A lei piace zappare. Zappare e piantare cicorie e rape -
Il viso si era rischiarato al ricordo delle cose buone della sua terra, di sua madre, l’amante silenziosa e fedele, quella che non lo aveva mai tradito e che, ne era sicuro, avrebbe differito il suo appuntamento con la morte per non disilluderlo nel suo sogno.
Il petto non più ansante ascoltava la voce che da lui usciva.
- E’ una donna forte mamma mia -a ggiunse con l’orgoglio di un innamorato e sembrava aver dimenticato ogni pena.
Riprese a offrire le caramelle con gli occhi lucidi di ansia e di trepidazione e con la generosità tutta cuore di chi, tornato in patria, ha ritrovato gli amici perduti.
- Anche mio marito buon’anima voleva andare all’estero - sospirò con voce incrinata la vecchina - Facevamo la fame allora. Mi lasciò con quattro figli e mi prestai i soldi per fargli i funerali. Non avevamo una lira. Anch’io volevo andare all’estero, anche dopo ma, chi mi dava i soldi per i biglietti? Andavo alle olive, a raccogliere i pomodori ma ogni volta che mettevo una lira da parte c’era una malattia e se non era la malattia era la fame. I miei figli si sono sposati. Piglio la pensione di vecchiaia ma non ce la faccio lo stesso. Mo’ un figlio mo’ un altro, hanno sempre bisogno -  Si fermò, poi riprese -voglio comprarmi un posto al cimitero, vicino a mio marito - e parve, questo, l’unico sogno a tenerla in vita, il solo per cui avesse sperato e disperato mille volte e mille in un biglietto all’estero.
Il mio vicino riprese ad agitarsi e pareva correre col desiderio e con l’impazienza più veloce del treno.Lo guardai.
Aveva i lineamenti ruvidi ma buoni, plasmati e incisi da una fatica secolare, la stessa fatica che io e i miei amici di prima classe nascondevamo così bene sotto i nostri panni, la nostra cultura, il nostro riserbo formale. La stessa fatica di cui noi avevamo vergogna.
Il treno rullava sulle rotaie docile e pietoso, lui, spola instancabile nella trama di una tela senza fine.
Nessuno più parlava ma in quell’aria satura di umano alitavano ancora i sogni e le speranze.
Il treno, zeppo di bagagli dalle fogge strane e diverse, di gente semplice, di gente arroccata, viaggiatori di seconda e di prima, tutti in corsa verso un approdo, lui, il treno amico, sembrava ansimare e singhiozzare sotto il peso di un affanno antico che solo l’ultima stazione può lenire.

La cornice

La giornata era di un caldo umido e afoso, una di quelle che mio padre soleva chiamare africane, in cui l’aria che respiri ti secca le narici e ti senti bruciare dentro e fuori, con l’umido salato sulla pelle e la molesta sensazione di dover soffocare per mancanza d’aria. Quella mattina non mi andava di uscire, ma le cose da sbrigare erano tante e tali che per telefono non avrei risolto nulla o, addirittura, avrei finito per complicarle. Le vie erano deserte, l’asfalto da lontano mandava bagliori quasi fosse uno specchio d’acqua stagnata e le vetrine dei negozi avevano le tende più abbassate del solito o erano schermate da fogli rinsecchiti di giornale. Camminavo a fatica in quel caldo immobile e pesante e, ad ogni commissione portata a termine, mi sentivo sempre più vicina al refrigerio dell’abbondante e fresca doccia del mio bagno. Mi ero caricata di buste e pacchettini e li portavo controbilanciati da una parte e dall’altra, nelle mani e tra le braccia, attenta a mantenermi all’ombra dei balconi senza mai riceverne un qualche beneficio sperato. Ero sul punto di rinunciare ad ogni tentativo di difesa allorquando ebbi la sensazione piacevole di una lieve folata di freschezza. Mi girai d’istinto verso il lato da cui si sprigionava e mi trovai accanto alla porta aperta di un negozio di articoli fotografici. Mi lasciai risucchiare da quella insperata quanto benefica frescura. Un rotolo per la mia macchina fotografica sarebbe stato, sia pure in maniera inadeguata, la controparte a quel sollievo momentaneo, né, d’altronde, mi potevo permettere di più in quel negozio che notoriamente trattava solo mercanzia d’alto livello e dal costo elevato.
Entrai.
L’interno, dalle pareti finemente adorne, era oltremodo elegante e confortevole. Lampade di cristallo pendevano da soffitto, in un sapiente e ricercato disordine, sul banco anch’esso di cristallo. In un angolo, civettuolo e paffuto, c’era un salottino di cinz e un tavolinetto da cui si slanciavano, su lunghi steli, fiori dalla bellezza e dalle tinte surreali. Prima di me c’erano solo tre persone: un uomo, una donna e una bimba. L’uomo, alto e distinto, dalla carnagione molto chiara e dai capelli finemente bianchi, era in perfetta sintonia con l’ambiente. Si muoveva con sicurezza e distacco, chiedeva e ordinava con l’invidiabile disinvoltura di chi vi è abituato. Una nota disarmonica e stridente, oltre che da me, era data dalla presenza delle altre due figure. La donna e la bimba erano protese sul banco, gomito a gomito, quasi fossero incollate. L’una, smilza e vestita di nero, indossava panni contadini su una pelle cresposa e terrigna. Poteva avere quarant’anni ma anche ottanta. La bimba, invece, anch’essa vestita a lutto, in poveri panni, mostrava ancora evidenti i segni teneri e delicati della fanciullezza. I loro sguardi convergevano su una foto a colori, formato grande, di un uomo dai capelli crespi, dalla carnagione riarsa dal sole, dura, piena di rughe e del colore della terra. La guardavano con aria amareggiata e profondamente insoddisfatte. Ogni tanto la donna mormorava qualcosa di incomprensibile nell’antico dialetto. Una sola parola si ripeteva più delle altre in un mesto intercalare: «Peccate!».
«Peccate» le faceva eco la vocina triste e sottile della bimba. E scuotevano la testa deluse e senza altra speranza. Il loro modo di fare troppo popolano era reso ancora più irrispettoso e irritante dall’aria compassata e dai modi gentili del signore distinto. Con le braccia poggiate sul banco di cristallo, l’una per reggere la foto, l’altra per allungarsi di più verso di essa, le due richiamavano a tratti lo sguardo preoccupato e impaziente del gestore del negozio che, non avendo il coraggio di riprenderle apertamente, approfittando di un attimo di pausa nelle trattative col signore distinto, gettò verso le due un frettoloso e spazientito «Non poteva venir meglio di cosi!» come a voler porre termine al più presto a quella loro molesta e sconveniente contemplazione. Ma quelle niente, non toglievano le braccia dal cristallo e non smettevano di contemplare l’uomo della fotografia a colori. L’anziano e distinto signore se ne stava gentilmente andando e l’uomo al di là del banco passò con sollievo a disfarsi di quelle due. Gli chiesero delle cornici. Mi meravigliai non poco: la foto era anche naturale che l’avessero ordinata lì, il prezzo dello sviluppo varia di poco da un negozio all’altro, ma che comprassero lì una cornice, lì dove c’era tanta ricercatezza da pagare, loro, che con quell’odore di terra in dosso dovevano essere sbarcate da un entroterra dimenticato dagli uomini, non era assolutamente normale. Con quella richiesta tradivano l’atavica diffidenza contadina per tutto ciò che, lontano dal loro mondo, minacciava insidie alla loro innata parsimonia. Il gestore del negozio, scocciato e incredulo a quella richiesta, ma deciso a sbrigarle in quattro e quattr’otto, cominciò a disporne un bel po’ sul banco con disadorna celerità e di tutte scandì molto chiaro e netto il prezzo, veramente esoso. Poi: - Sono prezzi fissi! - marcò gratuitamente, con lo scopo evidente di troncare ogni probabile illusione di sconto.
Io, intanto, avevo dimenticato il caldo e, poggiate le buste e i pacchettini in un angolo nascosto perché non offendessero ulteriormente l’eleganza raffinata di quel luogo, me ne stavo a seguire quelle due rozze figure, ancora più rozze ed irritanti nel loro modo di comportarsi. Dopo aver esaminato attentamente tutte le cornici, la donna cominciò ad attirare a sé quelle più costose e le andava accostando alla foto che teneva in mano per valutare l’effetto dell’accoppiamento. Il signore al di là del banco assunse un’espressione così allibita che mi fece sorridere. Ma quelle avevano capito bene i prezzi? La donna maneggiava ora, come frutto di un’ulteriore scelta, le cornici più care in assoluto e le sottoponeva al parere della bimba che, in questo, non le era di alcun aiuto perché si limitava sistematicamente a ripetere quello già detto dalla donna. Il gestore del negozio cominciava a dare segni più evidenti di impazienza; alla fine, poiché la soluzione della scelta sembrava oltremodo lontana da venire, decise di intervenire con argomentazioni persuasive ad orientare la scelta delle due verso una delle cornici, tra le prescelte, magnificandone i pregi e le qualità al di sopra delle altre. La donna, che fino ad allora aveva agito ignorando la presenza d’altri si sentì improvvisamente insidiata da quell’intervento. Ebbe un moto impercettibile di difesa, allontanò dall’intruso la foto a colori e girò lo sguardo verso di me. Vi lessi lo smarrimento e il bisogno di avermi come alleata sincera e disinteressata contro quell’intrusione tendenziosa. Gli occhi erano cupi e profondi, quasi due solchi scavati in quel viso disarmonico e sofferto. Le sorrisi mio malgrado. Mi feci più presso a lei che, accostando la foto alla cornice, mi andava chiedendo, in un linguaggio pressoché incomprensibile, se il viso dell’uomo, venuto male nella foto, non stesse peggio in quella cornice. Più per compiacerle che per altro le dissi che era vero ma che, comunque, poteva far riscattare una foto migliore, a quello che ritenevo un suo parente. La donna scosse la testa e facendosi forza, come a svelare una realtà che l’anima non vuole, con voce flebile sussurrò: «I’ muert’... I’ maritema!» (E’ morto...E’ mio marito). Improvvisamente mi apparve più triste, più vecchia, più inerme. La bimba sollevò il viso verso di me e, con gli occhi colmi d’orgoglio, fece eco: «Ite attanema!» ( E’ mio padre ).
Allora capii. Capii perché quelle due creature cosi male in arnese, che io non avrei mai sospettato madre e figlia, unite in un tutt’uno come il tronco e il virgulto, avevano scelto il negozio più ricercato e distinto del paese: ciò che quell’uomo non si era, né si sarebbe potuto mai concedere da vivo, glielo concedevano da morto, con il trasporto di chi ama al di là di ogni convenienza e di ogni sacrificio, quelle due povere creature rimaste sole. Anche lui, rimasto marito e padre oltre la morte, uomo dal volto color di terra, dalla pelle dura e rugosa come le zolle, lui che da vivo aveva scavato e piantato, potato e raccolto, che era vissuto e morto nella miseria, sconosciuto al mondo intero ma tanto caro alle sue donne, anche lui, come i grandi uomini, avrebbe avuto, nella cornice costosa, il riconoscimento ufficiale dei suoi meriti. E quelle due creature, unite come fossero un corpo e un’anima, nella ufficialità di quel luogo, accessibile solo a pochi, dinanzi ad un pubblico ristretto che poteva ritenersi privilegiato, quelle due creature insignivano, lì, il loro uomo di quell’alto privilegio riservato a pochi fortunati con tanto amore e tanto sacrificio!

Il calendario della zucca

Dovete sapere che anticamente, in alcuni paesi della Puglia , quando quasi nessuno sapeva leggere e scrivere, nelle case della gente comune l’ avvicinarsi delle grandi festività, come Natale e Pasqua, in cui si facevano memorabili abbuffate, si contava non sul calendario ma con il sistema della zucca. Si faceva così. Il giorno dopo la festa, diciamo di Natale, si mettevano in una zucca  vuota tante fave secche per quanti giorni ci volevano all'arrivo di Pasqua e da allora si cominciava a togliere una fava per ogni giorno che passava. Di tanto in tanto si andava , si scuoteva la zucca e dal suono che ne veniva si intuivano i giorni mancanti . Se il suono era tintinnante o di vuoto voleva dire che di fave ce n’ erano poche per cui la festa era vicina. Se era sordo o tonante voleva dire che le fave erano ancora tante per cui la festa era ancora lontana.
E così si faceva il giorno dopo la Pasqua per contare l’avvicinarsi del Natale. Tant'è che in Ostuni c'era il detto:
- Comme cocuzza ‘ntrona
Pasca ‘na vvene pe’ mmu…-
Perché Natale e Pasqua? Perché erano le festività più attese per le grandi abbuffate. Durante tutto l'anno la gente lavorava  e stringeva le cinghia ma, quando arrivava Natale e Pasqua, si mangiava e si beveva a più non posso. Si facevano insomma le grandi abbuffate.
L’usanza di contare con la zucca l’avvicinarsi delle festività e il modo di dire che ne derivò pare che siano nati da un fatto realmente accaduto.
Tanti e tanti anni fa una coppia di contadini avevano un unico figlio maschio che aiutava il padre nel lavoro dei campi. Raggiunta l'età per la legge ricevette la cartolina di precetto  con cui veniva chiamato al servizio di leva obbligatorio. Il padre, che si era fatto più vecchio , dal giorno della partenza si mise ad attendere il ritorno del figlio. La campagna non aspettava, i lavori si dovevano fare e lui non ce la faceva più da solo. Aspetta e aspetta il figlio non veniva , così , dopo non molto tempo, cominciò a chiedere ogni giorno a sua moglie:
- Quanne vene Cicce?! -
e la donna,ogni giorno gli diceva, a occhio e croce, quanto tempo mancava al ritorno del figlio. Un giorno, spazientita, prese una zucca vuota, ci mise dentro tante fave per quanti giorni, secondo i suoi calcoli, mancavano al ritorno del figlio e gli disse:
- Tieni…Qui dentro ci sono tante fave per quanti giorni mancano al ritorno di Ciccio…Sai cosa devi fare?..... Ogni giorno togline una…conta poi tutte le altre e saprai, così,quanti giorni restano..-
L’uomo per un po' di giorni fece come la moglie gli aveva detto, poi, spazientito, prese la zucca di nascosto dalla moglie, se la portò nel “cammarino“ (stanzetta riservata alle cose del capo famiglia) e qui, ogni giorno, toglieva una fama e, invece di contare tutte le altre,  avvicinava la zucca all'orecchio e, dal rumore che faceva, cercava di indovinare più o meno quanti giorni mancavano al ritorno di Ciccio.
Un giorno la moglie, incuriosita dal fatto che il marito si chiudeva ad una certa ora nel “cammarino”, entrò di sorpresa e lo colse proprio mentre agitava la zucca vicino all'orecchio.
Colto in flagrante, l’uomo le spiegò tutto e, agitando la zucca, concluse con amarezza:
- Cumme cucuzza ‘ntrona
Cicce ‘na vvene pe’ mmu !…-
Tutti e due non sapevano di aver inventato, per chi come loro non sapeva né leggere e né scrivere, il calendario della zucca , efficace sostituto dell’almanacco, destinato solo a pochi fortunati.
Oggi l’espressione che ne derivò viene ancora usata nel linguaggio quotidiano, per accentuare  in modo efficace il rammarico di un buon evento ancora lontano .

Fili d'amore

Da giorni mi ero ripromessa di ritornare al Centro Solari che, avevo saputo, cominciava a popolarsi di ospiti con il ritmo fisiologico di un organismo in buona salute. Che l’ambiente fosse ospitale e caldo come un abbraccio lo percepìi  appena varcata la soglia del grande salone di ingresso. Quella prima volta don Franco Blasi, sostenitore e direttore dell’Opera, mi accompagnò in una visita a tutto il complesso rilevato dalla Diocesi e ristrutturato per il ripristino della sua attività, quella di casa di riposo per anziani, amorevolmente detta anche Focolare. L’impatto fu tra i più gradevoli e rasserenanti. In un’ atmosfera di tranquillità e di ordine incontrai un personale sorridente  e cordiale e il primo grappolo di ospiti accrocchiati in un salottino presso l’ampia vetrata del salone. Qualcuno discuteva, qualcuna sferruzzava, qualcuno sfogliava un quotidiano, qualche altro taceva. Ci intrattenemmo un po’ con loro . Pareva che tutti avessero qualcosa in serbo da comunicare o da chiedere a don Franco. Erano sereni e a loro agio, come lo si può essere a casa propria.
Ci accomiatammo accompagnati dal calore dei loro saluti e proseguimmo la nostra visita.  Visitai alcune stanze ancora libere. Tutte con finestre aperte sul verde, inondate di luce, linde, arredate con decoro, fornite di bagno con doccia e telefono in camera. Era l’ora del riassetto. Per i corridoi si spandeva un odore fresco di lindore e di pulito. Un ospite anziano veniva accompagnato da un volontario nella sua passeggiatina mattutina, il passato e il futuro insieme nel presente.
Quella mattina nell’ampia sala di ricreazione non c’era ancora nessuno. Dopo le pulizie gli ospiti che avessero voluto avrebbero potuto dedicarsi alla lettura di uno dei tanti libri della biblioteca o avrebbero potuto vedere la televisione o giocare a carte oppure esercitarsi ad uno degli attrezzi ginnici. In cucina c’era ancora tramestìo di stoviglie. Si riordinavano i tavoli appena liberati dopo la colazione e si apparecchiavano per il pranzo. C’era esposto il menu settimanale e, accanto, quello personalizzato per i commensali affetti da specifiche patologie. Il tutto su prescrizione del medico curante e del dietologo della Casa. La sala da pranzo, ampia, era sistemata ed arredata con la stessa cura con cui una padrona di casa cerca di realizzare per i suoi cari conforto e benessere.
Salimmo al piano superiore in ascensore, di lì ridiscendemmo verso la cappella dove una tenera Madonnina sembrava avvolgerci nel suo sguardo amorevole. Ritornammo nel salone di ingresso. Gli ospiti continuavano ad intrattenersi nei loro passatempi con aria soddisfatta e rilassata. Promisi che sarei ritornata al più presto. Don Franco mi accompagnò fuori. Un gruppo di volontari mi salutò, un medico, un assistente sociale, dei parenti e dei giovani  che erano venuti per prestare la loro opera comunque e dovunque ci fosse bisogno.
Il sole filtrava tra gli alberi del boschetto in cui passeggiava un ospite per nulla scoraggiato dall’aria gelida. Promisi che sarei ritornata quanto prima ad intrattenermi con i simpatici inquilini che avevano mostrato di gradire la mia presenza. Non sapevo perché ma mi sentivo appagata e orgogliosa di quanto avevo visto e conosciuto. Il perché l’ho capito l’altro giorno quando sono ritornata per far visita ad una mia cara amica e collega in pensione, Carmelina Buongiorno, che si era trasferita lì con le sue cose più care. L’abbraccio sincero ed affettuoso  sciolse i nostri ricordi in uno scambio reciproco di esperienze condivise, la cui centralità palpitante erano ancora e sempre  i nostri alunni.  Eravamo state colleghe al Liceo Classico  nei lontani anni sessanta  e lei mi parlava di quei tempi con il fresco entusiasmo di sempre e con lo stesso trasporto che sempre ci coinvolgeva.
Sul tavolo da studio campeggiava una vecchia foto ingrandita, me la mostrò con tenerezza materna . - Li riconosci?... Sono i maturandi del  ’68…Sono venuti l’altro giorno a salutarmi…-  Me li indicò uno per uno , di ognuno ricordò i pregi e per ciascuno ebbe un apprezzamento e una lode. Mi indicò due giovani sorridenti- - Non ci sono più…-  Un attimo di commozione poi riprese a parlarmi di loro, dei suoi alunni, e pareva fosse uscita proprio allora dalla loro classe , con le stesse apprensioni e con lo stesso amore. Mi mostrò anche dei vecchi libri, ancora segnati dalla fatica, letti e riletti, amati e custoditi , trasferiti  lì con lei come  compagni inseparabili . Li sfogliai e nel movimento ingiallito delle pagine ascoltai il sussurro dei ricordi. Quelli erano anche i miei vecchi libri.  A malincuore mi accomiatai da lei.
Lungo la strada del ritorno risentii quella sensazione di orgoglio a cui non avevo saputo dare un perché. Sì … ora sapevo perché mi sentivo orgogliosa … Mi sentivo orgogliosa del fatto che la mia città  potesse vantare la presenza di un’Opera così preziosa, di una Casa Grande in cui le generazioni, passato e presente,  anziani e giovani potessero continuare a intrecciare e a tessere le loro storie con fili d’amore.  

Giulia

Avevo 5 anni e mezzo quando lo conobbi.
Da bambina sono sempre stata molto timida, avevo paura di parlare a voce troppo alta. Eppure sembravo una bambina vispa, occhioni verdi, capelli biondo cenere e un sorrisetto pronto a combinarne una delle sue. Lui era l’opposto di me. Jaan era un bambino con doti esplosive, ma purtroppo cresciuto in una famiglia disastrata. Non ho mai conosciuto un bambino con tanta forza di volontà nella mia vita. Cosa successe nella sua famiglia me lo spiegò anni dopo, non avevo la minima idea che quel bambino così ottimista e apparentemente felice avesse potuto sopportare la situazione in cui ha vissuto la sua infanzia.
Non feci subito amicizia con Jaan, anzi inizialmente mi stava molto antipatico, eppure fu l’unico ad avvicinarsi a me, a provare a fare amicizia. Ero sola e lui mi tendeva la mano. Inizialmente, quella mano disposta ad aiutarmi cercai di non vederla, ma lui era in cerca del mio sorriso e io non potei che aggrapparmi a quella mano tesa verso di me. Il nostro lo potrei definire rapporto di amicizia, solo all’età di sette anni. Mia madre non faceva che dire “ Lenu dovresti farti qualche amica, non dovresti frequentarlo mai più!”, eppure la mia infanzia è passata tra le sue braccia. Amavamo andare nel piccolo boschetto accanto al lago, lì ci godevamo il sole, ci tuffavamo in quell’acqua opaca e rimanevamo stupiti dall’immensità della natura.
Ci chiamavano “i gemelli del lago”, passavamo ore in quel posto, solo noi due e non volevamo nessun altro. Fu proprio in un caldissimo giorno d’ estate, stesa sul muschio del boschetto, quello che il mio amico aveva sopportato per anni, la madre era morta in un incidente stradale quando lui aveva solo 4 anni e il padre era tornato da circa un anno a casa dopo diversi anni passati in prigione. Quel ragazzo aveva solo 13 anni quando confessò le sue insicurezze, si espose diventando debole, un bersaglio facile. In quel momento mi accorsi di quanto eravamo simili, con quello scudo piantato davanti a noi, senza far entrare nessuno nella propria vita.
Jaan era finalmente riuscito a liberarsi di quel guscio ingombrante e, forse, per la prima volta realizzò che di essere un ragazzo fortunato ad avere me come amica, e un ragazzo povero di valori, che nella sua vita non aveva nulla da perdere. L’anno che seguì a quella giornata, fu cupo e triste. Ci vedevamo sempre meno, sapevo non provasse più interesse per me, non aveva più piacere di incontrarmi. Un giorno decisi di seguirlo di nascosto, per capire cosa lo turbava così tanto. Subito dopo scuola, andò sulla strada di casa, ma invece di svoltare a destra, proseguì sempre dritto. Subito dopo svoltò a sinistra e si fermò di scatto; pensavo si fosse accorto di me, ma poi svoltai l’angolo opposto senza farmi notare e vidi che Jaan stava baciando una ragazza.